La maternità ha cambiato molto Cristina Donà e non poteva essere altrimenti. Oggi la musicista milanese guarda al mondo che dovrà ospitare suo figlio con un po’ di apprensione raccontandolo con occhi nuovi. Il suo nuovo disco “Torno a casa a piedi” è un quaderno zeppo di canzoni preoccupate ma speranzose, con una forte fiducia nei piccoli grandi miracoli d’ogni giorno. E i colori del disco ne sono conseguenza: accesi, accesissimi con lo zampino di Saverio Lanza che ha tinteggiato i brani fino a farli approdare in terreno pop, mescolando melodia e temi forti, realtà e onirismo.
Cristina, chi è la Donà oggi?
A saperlo! Sicuramente sono una donna che cerca di conciliare la sua attività artistica con quella di mamma e moglie e in Italia non è semplice per nessuno. Sono anche una persona un po’ preoccupata per come stanno andando le cose in questo Paese e che però cerca di cogliere gli spunti positivi da chi cerca di fare le cose per bene. C’è una corrente sotterranea che si dà da fare… quei “miracoli” di tutti i giorni di cui parlo in questo disco. Piccole grandi imprese quotidiane che la politica fa di tutto per oscurare. Perché? Perché è più comodo governare con la paura, è un’arma di controllo molto efficace.
In periodo di rischio nucleare il titolo del disco “Torno a casa a piedi” è una risposta ecologica?
Certamente, tra l’altro il Governo ha detto di voler fare retromarcia sul nucleare, l’ennesimo spot? Sono perplessa. Rispetto a quello che mi chiedi tu, io vivo dal ‘93 in montagna, una scelta inizialmente per amore, poi anche per recuperare la dimensione più naturalistica della vita. Mettere sempre l’uomo al centro di tutto è un errore, “Torno a casa a piedi” quindi è un invito a riprendersi i propri tempi strozzati dalla fretta e dal vortice della quotidianità, riprendersi il proprio corpo, il proprio movimento. È un invito a respirare, anche se ora come ora l’aria non è delle migliori.
Rimanendo in tema, nel brano “Giapponese (L’arte di arrivare a fine mese)” prendi un po’ in giro l’automatismo di quel popolo. Cosa hai provato però di fronte al disastro dello tsunami?
Guarda, non me ne parlare. Adesso quel brano faccio fatica a suonarlo dal vivo, infatti l’ho trasformato nella mia dedica accorata al Giappone. Che poi in realtà era un gioco, riferirsi ai giapponesi era una scusa per parlare dell’uomo in generale e del suo essere schiavo dei ritmi forsennati. Io amo il Giappone, dal sushi alle sue antichissime tradizioni. Mi incuriosisce questa loro immensa dignità nell’affrontare le cose, quello strano controllo delle emozioni di fronte al dolore.
Questo però è un disco pieno di colori, quasi da dimensione favolistica…
Sono sempre abbastanza istintiva quando si tratta di pensare a un disco. I suoi colori quindi sono anch’essi frutto di spontaneità, anzi il perfetto specchio del momento che sto passando. Questo è un disco in cui volevo mettere in chiaro la mia idea su certi temi importanti. Avevo dei messaggi da inviare ma volevo veicolarli con una solarità che spero possa averli accompagnati al meglio. Credo sia importante comunicare la speranza, la musica ha l’obbligo di farlo. L’ha capito benissimo Saverio Lanza che ha curato alla perfezione sfumature armoniche e certe complessità che credo siano state apprezzate.
Nei tuoi testi c’è sempre un riferimento al cielo…
In effetti sì. Sono stata per anni affascinata dall’astronomia, non so da cosa dipenda, forse per quel mio vivere sempre con la testa tra le nuvole. Mi piace l’idea della fascinazione dell’universo, il fatto di poter guardare le cose dall’alto, mi piace che non tutto possa essere spiegato.
Cesare Basile e Manuel Agnelli hanno ipotizzato un ritorno del Tora Tora Festival…
Mi manca il fermento degli anni ‘90, quell’urgenza di trovarsi assieme, quel modo di sperare in nuovi orizzonti musicali, le piccole etichette, la Mescal e i suoi miracoli. Mi manca il fatto che ci sia quella possibilità di lavorare in libertà. Mi piacerebbe partecipare a un Tora Tora, se non ricordo male ho aperto la prima edizione a Padova nel 2001e poi ne ho fatte diverse altre. Era un momento speciale per la musica italiana, il pubblico era rispettoso di tutti quelli che salivano sul palco, non importa se facevano rock, reggae, folk, pop. E poi tra noi non c’era nessuna rivalità. Bello, speriamo che si possa concretizzare, Manuel poco tempo fa mi aveva anche detto che gli sponsor ci sarebbero.
È in uscita “Parlami dell’universo. Storia di un viaggio in musica”, la tua biografia curata da Michele Monina per Galaad Edizioni. Ce la presenti?
È una biografia un po’ atipica. Per mia volontà non volevo un elenco di fatti e basta. E così ho affidato il lavoro a Michele Monina, lui ha un modo di raccontare le cose in maniera particolare, un metodo narrativo spiazzante, non è facile da domare Michele! Per me poi è stata l’occasione di riappropriarmi di alcuni ricordi seppelliti: tanti personaggi, eventi, la consapevolezza di essere cresciuta in un periodo musicale fatto di campioni, da Agnelli ai La Crus al Consorzio Suonatori Indipendenti.