La doppia data romana degli U2 era probabilmente il momento più atteso dell’estate rock italiana: la band più famosa del pianeta, una location prestigiosa, una setlist straordinaria (fatta apposta per celebrare il trentennale di “The Joshua Tree”) e un artista di supporto d’eccezione come Noel Gallagher hanno conferito in pieno i crismi dell’evento (quello vero) a questa due giorni capitolina. I biglietti erano volati via alla velocità della luce, ma noi – con non pochi problemi – eravamo riusciti ad accaparrarceli per sabato 15.
La doppia serata è stata epocale, ma gli aspetti negativi (indovinate un po’, di natura strettamente logistica) ci sono e preferiamo elencarveli subito. In tanti, con l’alta velocità ferroviaria che ormai copre più di mezza Italia, hanno preferito (la sicurezza sulle strade ringrazia) lasciare l’auto a casa per evitare pericolosi colpi di sonno al volante: all’Olimpico però ci si deve pur arrivare e il trasporto pubblico capitolino al riguardo è assolutamente carente, visto che dalle stazioni metro più vicine i bus diretti all’Olimpico passano raramente e ancor più raramente li si riesce a prendere, visto che viaggiano già stracolmi. Arrivati allo stadio, un’altra sorpresa che avrà probabilmente fatto infuriare gli avventori dell’ultimo secondo: a causa della chiusura di un varco per l’entrata della Tribuna Monte Mario (quella che stasera ci “ospita” a caro prezzo), si deve tornare indietro e passare dall’entrata del Foro Italico: tradotto in parole povere, quasi 2 km in più a piedi che si sarebbero potuti evitare se qualcuno avesse messo delle semplici e banali indicazioni scritte, visto che – forse a Roma dovrebbero ricordarlo – non tutti i presenti stasera sono abbonati alla Roma o alla Lazio e possono ritrovarsi ad entrare allo Stadio Olimpico anche per la prima volta.
Tutto qui? No, vorremmo tanto dirvi che dentro è filato tutto liscio, ma dobbiamo raccontarvi un episodio alquanto increscioso: appena seduti al nostro posto, rigorosamente numerato, una tanto gentile quanto incolpevole hostess ci invita ad alzarci, perché in quella zona è stata montata un’impalcatura inizialmente non prevista (in realtà distante qualche fila di seggiolini, ma effettivamente non era il massimo della sicurezza). Agli sfortunati che hanno comprato il biglietto in quella zona dello stadio viene proposta (senza alternative) un’altra zona – a occhio e croce più lontana dal palco – rigorosamente non numerata. Ovviamente è il caos: c’è gente che aveva acquistato due o tre posti vicini e arrivando tardi non li ritrova nel nuovo settore non numerato, c’è gente (come il sottoscritto) che a causa della congestione in fase di vendita è riuscita a comprare più biglietti ma per zone diverse dello stadio, e dunque – essendo solo al concerto e senza posto numerato – se deve andare in bagno o al bar deve organizzarsi con i vicini di concerto per tenere occupato il posto. Intollerabile, ancor di più se pensiamo che persino i posti più economici (la curva o i settori a visibilità ostruita) erano rigorosamente numerati. La situazione ha oltretutto compromesso in buona parte anche la visibilità dell’esibizione di apertura di Noel Gallagher, visto che i gradini erano pieni di gente spaesata (e imbestialita) che chiedeva alle hostess dove potersi sedere. Altro che Olimpiadi…
Venendo all’aspetto musicale, non si può che parlar bene della serata a parte un’acustica che ha lasciato abbastanza a desiderare, soprattutto nel caso del concerto di Noel Gallagher, già chitarrista, seconda voce nonché leader degli Oasis. Per Noel è per certi versi un ritorno alle origini, visto che la band dei fratelli Gallagher fu scelta nel 1997 dagli U2 come supporto per le tappe americane del mastodontico Pop Mart Tour. Imbarcatosi nella sua avventura solista soprannominata Noel Gallagher’s High Flying Birds, il più anziano dei fratelli sta proponendo per la terza estate di fila il suo secondo album, l’ottimo “Chasing Yesterday”: sinceramente troppo, qualche piccola variazione in setlist sarebbe stata sicuramente apprezzata. Così non è, visto che l’obiettivo di Gallagher non è tanto fare felici i vecchi fan (presenti comunque in buon numero, vista la marea di magliette Oasis), quanto quello di ingraziarsi gli ascoltatori che compongono i grandi numeri del rock e che riempiono gli stadi, quel ristrettissimo giro di artisti rinominato “rock per le masse” del quale Gallagher vorrebbe tanto far parte. Noi però rimaniamo dell’idea che gli stadi potrà riempirli solo in compagnia del fratello Liam, in una milionaria quanto al momento improbabile reunion degli Oasis.
Il suo concerto – setlist a parte – ha comunque riservato tante chicche per i fan, a cominciare dalla composizione della band che vede l’ingresso in formazione degli ex Oasis e Beady Eye Gem Archer e Chris Sharrock. Convince appieno anche l’uso della sezione fiati, che rende deliziosa una vecchia chicca come Half The World Away. Molto bene Lock All The Doors e AKA…What A Life!, perfette per uno stadio e – venendo ai grandi classici – se delude parecchio la sciatteria con la quale viene suonata Don’t Look Back In Anger, stupisce in positivo la freschezza dell’esecuzione di Wonderwall, tanto diversa quanto ugualmente bella rispetto alla versione che abbiamo ascoltato cantata dal fratello Liam in quel di Liegi qualche giorno prima. I litigi tra fratelli impediranno le reunion ma stimolano la creatività musicale, dunque tutto sommato va bene così.
Dopo una pausa di quasi un’ora è la volta degli U2, introdotti dalle note di The Whole Of The Moon, vecchia canzone degli scozzesi The Waterboys. Il cuore del concerto è la riproposizione del seminale “The Joshua Tree”, ma c’è spazio per un’introduzione da brividi e una conclusione altrettanto trionfale. Gli U2 iniziano con le splendide Sunday Bloody Sunday, New Years Day, Bad e Pride (In The Name Of Love), cantate (bene) in modo volutamente intimo, senza alcuna immagine sul maestoso maxi schermo alle loro spalle: la scelta risulta però controproducente, perché – anche se l’idea è ottima – l’attuazione è fin troppo penalizzante per chi è lontano dal palco, che – romanticismo a parte – vede solo quattro puntini in lontananza.
Quando però gli U2 iniziano a suonare “The Joshua Tree” cambia drasticamente tutto: prima quattro piccole sagome che si stagliano su uno sfondo totalmente rosso, poi un’orgia visiva filmata ancora una volta Anton Corbjin, che impressiona soprattutto nell’iniziale When The Streets Have No Name: l’artwork – componente fondamentale di quell’album – è lì davanti a noi, insieme alla musica degli U2, e il coinvolgimento è massimo, anche grazie alla tecnologia che in 30 anni ha fatto passi da gigante: la definizione delle immagini è sinceramente impressionante, tanto che a volte sembra quasi che qualche soggetto dei filmati in questione esca fuori a invadere l’Olimpico da un momento all’altro. L’esecuzione integrale di The Joshua Tree è un’autentica manna dal cielo per i fan duri e puri, anche se sicuramente il rispetto rigoroso dell’ordine delle canzoni causa qualche piccolo squilibrio (anche altri due super classici come I Still Haven’t Found When I’m Looking For e With Or Without You vengono di fatto proposti in apertura). Il trionfo è comunque totale: il caro, vecchio Bono Vox è invecchiato così tanto da sembrare una brutta copia di Robin Williams, un Re nudo davanti al suo popolo. Ma rimane sempre lui, la voce che ha fatto emozionare almeno tre generazioni c’è sempre.
Si arriva al gran finale, dove – dopo una straordinaria Miss Sarajevo, con la commovente voce di Pavarotti registrata – arriva il momento degli U2 anni 2000, quelli più tamarri e meno ispirati, incapaci di innovare e innovarsi dopo lo straordinario album “Pop” datato 1997. Beautiful Day, Elevation e Vertigo hanno comunque una resa massima, anche se c’è da dire che i volumi altissimi non hanno aiutato la produzione di un suono decente. C’è ancora però spazio per la grande musica: Ultraviolet (Light My Way) è unpassaggio fresco e toccante che però vede la retorica spesso buona e giusta di Bono e soci toccare livelli sinceramente insopportabili, visto che tra le donne che hanno reso grande l’umanità riproposte nel maxi schermo spunta persino Angela Merkel. One è invece il consueto, classico trionfo, una delle ballad più belle della storia del rock. Sarebbe stata la logica conclusione, ma gli U2 soprendono ancora una volta tutti chiudendo con The Little Things That Give You Away, piacevole primo singolo dell’album di prossima uscita “Songs Of Experience”. La scelta però non stupisce più di tanto: gli U2 non sono mai banali. Non saranno più brillanti su disco come una volta, ma dal vivo rimangono una di quelle band da vedere almeno una volta nella vita.
SETLIST: Sunday Bloody Sunday – New Year’s Day – Bad – Pride (In The Name Of Love) — Where The Streets Have No Name – I Still Haven’t Found What I’m Looking For – With Or Without You – Bullet The Blue Sky – Running To Stand Still – Red Hill Mining Town – In God’s Country – Trip Through Your Wires – One Tree Hill – Exit – Mothers Of The Disappeared — Miss Sarajevo (Passengers cover) – Beautiful Day – Elevation – Vertigo – Ultraviolet (Light My Way) – One – The Little Things That Give You Away