Carlos D. è in posa. Indossa un vestito che se lo muove troppo finisce in brandelli. L’ha preso a poche decine di dollari in un buco all’East Village. Giacca, pantaloni, camicia, tutto appuntato con spille da balia, fragile ma sufficiente per qualche fotografia promozionale che non insisti troppo sui dettagli. Gli Interpol di inizio secolo si presentano così: ventenni invecchiati, conciati come crooner anni ’50, tristi ma solo all’apparenza perché un sorrisetto scappa sempre prima del flash. Oggi Carlos D. non è più nella band e, come gli altri, probabilmente veste Prada da 2000 dollari. Il fatto è che nei vent’anni anni trascorsi da Turn On The Bright Lights e dall’11 Settembre, New York è cambiata. È cambiata come una donna a cui è passata attraverso una tragedia e che ora fa finta di dimenticare conciandosi a festa. New York che accoglie gli Interpol prima dell’11 Settembre del 2001 è una città aperta, ricca, certo, altolocata a tratti, ovvio, popolata da uomini di affari, altroché, ma comunque segnata da certo odore forte che arriva dal porto e da certe chiazze di grasso. New York dopo l’11 Settembre è un manuale di come si elabora un trauma, con boutique e tecnologia che non sono altro che un grumo indistinto di elementi auto-consolatori.
Paul Banks sbarca a New York nel 1997 dopo un lungo girovagare: nasce in Inghilterra, cresce in Spagna e in Messico, studia a Parigi. Qui conosce il londinese Daniel Kessler che ritrova tempo dopo e per caso alla NY University. A chiudere il cerchio gli altri due elementi della band: il mezzo colombiano Carlos D. e un italiano di Philadelphia con nome e cognome da gangster: Sam Fogarino. Quattro stranieri nella città più ibrida del mondo: spalancata come una scatola di sardine. Una città che l’11 Settembre del 2001 perde la sua leggerezza quando anche un fattorino che fa trambusto nel consegnare merce a un fast food provoca brividi di freddo e fa spostare rapidamente lo sguardo verso lo skyline decapitato.
In “Turn On The Bright Lights”, registrato che ancora la polvere staziona sul cielo di New York, nel Novembre del 2001, c’è una canzone che parla della Grande Mela ammaccata. NYC si apre con un arpeggio nerissimo. Banks ha un vocione baritonale à la Ian Curtis ma canta qualcosa che Ian non avrebbe mai cantato: si rivolge a New York, dice: “Sono stufo di spendere queste notti solitarie (…) La metropolitana è un porno, i (tuoi) marciapiedi sono un disastro (…) So che mi hai sostenuto per molto tempo (…) ma ora tocca a me accendere le luci brillanti”. Il bucato delle signore di Brooklyn è perennemente zozzo di terra, a Manhattan non puoi bere un caffè se non coprendolo con la mano, la ferita è ancora piuttosto gonfia, bluastra, bruciante. In questo contesto parlare di luci brillanti è quasi ridicolo. La città però per la prima volta ha bisogno dei suoi cittadini e non è roba da libri di sociologia, è un’urgenza reale, immediata, espressa, un dato di fatto. Pochi anni dopo Banks riprenderà il concetto in Next Exit dell’album successivo “Antics” (2004), dove il suo desiderio è “rendere questo posto (ancora New York) un cuore di cui far parte”.
Perché se è vero che nella Untitled di apertura la profondità della notte è febbrile e la città striscia come un serpente, è altrettanto vero che gli Interpol reagiscono alla cappa con canzoni veloci ed elettriche, brillanti. L’onda, dunque, è salata, salatissima. E si cavalca, si balla, ci si dimena, forse in maniera incosciente e delirante, nella propria stanzetta ma anche in discoteca dove una serie di luci accecano e distraggono. Obstacle 1, PDA, Say Hello To The Angels sono canzoni di reazione. In Leif Erikson, Banks fantastica: “Immagino io e te nella giungla, ma sarà tutto ok”. Stella Was A Diver And She Was Always Down, poi, racconta di una prostituta che si libera da un peso mortale. E dietro, la città vibra, trema. E puzza ancora di fuliggine. Un manto pesante come una coperta di lana d’estate.
Un “fanculo” liberatorio quello degli Interpol, un fanculo davanti allo specchio. Come Edward Norton nel film “La 25ª ora” che Spike Lee inizia a girare, anche in quel caso, pochi mesi dopo l’11/9. Norton è Monty, uno che si è rovinato la vita mettendosi nel giro sbagliato. E Monty davanti allo specchio se la prende con New York e con tutti i suoi stranieri, ma alla fine anche e soprattutto con se stesso: “…fanculo a te, Montgomery Brogan. Avevi tutto e l’hai buttato via”. In The New, Paul Banks s’affaccia su Ground Zero (come i protagonisti de “La 25ª ora”) e si libera ad un’aspirazione. Eccola: “(Vorrei) una vita assieme, una vita migliore”. Perché ogni ferita di una città che si rimargina è la cicatrice permanente di ogni uomo che la popola. E le due cose sono per sempre collegate. Vent’anni fa come oggi.