Quando hai una bottiglia per brindare e quello per cui stai per brindare è l’arrivo di un nuovo secolo, il tempo si ferma. Chris indossa una giacca luccicante, è pettinato ad arte, stringe una magnum con la mano destra e con le dita della sinistra trattiene il tappo che spinge per esplodere. Mancano pochi secondi al 2000. Una specie di spauracchio dicono i giornali. C’è quella faccenda del millennium bug, c’è quella sensazione che dal giorno dopo cambierà tutto. Chris aspetta. Ha gli occhi lucidi. E il tempo si ferma per davvero. Così ha qualche momento per pensare: “Sta per finire un decennio pazzesco” – rimugina. Un ottovolante, una giostra infuocata. Quanta musica, quanti viaggi. Quanti amici andati, quanti deliri. Quanti dollari buttati, altri goduti fino in fondo. Quante chitarre a raccontare i migliori anni di una vita. Chris, incrocia lo sguardo di chi gli sta accanto. Al ralenti. L’odore di cibo inonda la stanza, così come quello dei fuochi d’artificio che si scaldano. Ci siamo, dopo quel volo di sughero non si potrà più tornare indietro.
Ma per Chris Cornell il bug del millennio si era già palesato. Succede tutto in una volta come sempre in questi casi. La sua band, i Soundgarden, si era sciolta dopo una serie di scazzi colossali nell’Aprile del 1997, ma era il tessuto connettivo ormai a fare acqua da tutte le parti. Quella bolla di sapone chiamata grunge era scoppiata lasciando i resti sui muri. Kurt Cobain era morto, Andy Wood pure. Di Layne Staley poche notizie. E poi quel ragazzo dalla faccia pulita che non c’entrava nulla con lo sfacelo, ma che fu inghiottito dal fiume quasi fosse una punizione divina: Jeff Buckley. Però non è solo questo. Perché a fare traballare la terra sotto i piedi di Cornell ci sono pure il divorzio con la moglie e quel vizio per l’alcol, collante diabolico della sua vita.
Ma Cornell si dimostra forte abbastanza per affrontare il burrone, almeno quella volta. In tasca ha una sola parola che gli sbatte sulle dita ogni volta che cerca le chiave dell’auto: “Euphoria”, ovvero la sensazione che si ha quando ci si infila in qualcosa di sconosciuto. Accanto a quella però eccone un’altra che incrocia casualmente una mattina, incastrato nel traffico di Seattle: Mo(u)rning”. Con o senza ‘u’ – è il grande dubbio di Chris. Perché ‘con’ significa “lutto”, ‘senza’ invece “mattina”. E il significato, certo, cambia del tutto, o forse no. Alla fine opta per la seconda ed Euphoria Morning diventa il titolo del debutto solista di Cornell all’insegna della resistenza. Perché, sia che si tratti dell’euforia della mattina, che del lutto (ma nella ristampa del 2015 tornerà la ‘u’), il senso è quello artistico della ripartenza senza dimenticare la tensione del vissuto. E Chris riparte con un disco straordinario. Un album che si prende la responsabilità di chiudere il decennio. Dodici canzoni che mollano il grunge, e che fanno un viaggio nel rock più trasversale e acustico. Un disco che non c’entra nulla con il Cornell sentito fino a quel momento, ma che è lui al cento per cento.
Lo è quando in Can’t Change Me, canta soffice: “Sta per cambiare il mondo, ma non può cambiare me” o quando, sempre a proposito del secolo in arrivo, gli si stringe il cuore: “Sono alla ricerca di un amico per la fine del mondo” (Preaching The End Of The World). Nella voce di Cornell evapora la cattiveria dei Soundgarden, ora piuttosto il suo cantato è asciutto, per nulla irruente. Le sue canzoni sono suggestioni romantiche, poesie americane, poco sofisticate ma molto sentite. E la musica si scrolla di dosso l’onere degli steccati: c’è il raffinato soul di When I’m Down, lo space rock di Moonchild, il folk crudo di Sweet Euphoria, la ballata esistenziale Disappearing One. Ci sono gli incubi personali, la solitudine, c’è la storia sfortunata di Jeff Buckley raccontata nella funky ma melanconica Wave Goodbye. C’è l’atterraggio di sicurezza verso un nuovo mondo che – POPP! (schizza il tappo dello champagne) – è appena cominciato.