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Chris Cornell, ritorno al giardino sonoro

Photo Credit: chriscornell.com / Carlos Ramos
Photo Credit: chriscornell.com / Carlos Ramos

C’è stato un tempo in cui Chris Cornell aveva perso la voce. Lo sentivi, faticava, sfiatava. La mitologia del rock racconta di un’operazione alle corde vocali e di un abbraccio virtuale del mondo musicale a un eroe di una generazione. Le sue corde vocali maltrattate e sofferenti erano la metafora di un tempo che finiva. Il tempo degli anni Novanta, delle ribellioni, della X di una generazione disintegrata da un minuscolo e invisibile bug del millennio. Una sottile linea rossa che ha chiuso ermeticamente e per sempre un tempo epico, naif, totalizzante e fisicamente rock’n’roll. Chris era il padre putativo di tutto questo. Era il fratello maggiore. Quello che non ne fa cazzate, che non fa la fine di Kurt Cobain o di Layne Staley. Chris era quello che pianse come un matto alla morte di Andy Wood, quello che rese il movimento grunge qualcosa di credibile. Anche lui però non era un angelo, aveva i suoi mostri, le sue contraddizioni. Anche lui dovette passare indenne nel cerchio infuocato della decadenza. Ma c’era qualcosa che lo salvava sempre: la voce. Un tuono, un mare in tempesta, qualcosa che ha a che fare con la natura ma anche con la disperazione. L’urlo di un Gesù di legno, il vortice micidiale di un sole ridotto a buco nero. Ma lui restava lì, con il miracoloso equilibrio di un pupazzo a calamita. E la calamita era la sua voce. Il suo pendolo, la sua forza di gravità.

A Seattle, sul lago Washington, c’è questa scultura. Si chiama A Sound Garden e l’artista che la costruì, nel 1983, è Douglas Hollis. Ci sono dei tubi di ferro, ci sono queste lamine mobili, questi sonagli, che al passare del vento suonano che sembrano flauti. È la pace, è la musica che emerge nonostante tutto. Ecco, io Chris me lo immagino lì in questo momento, magari immerso nell’acqua. Nel suo giardino dell’Eden sonoro.

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