Tempi folli. Ormai lo sappiamo bene. Mentre ci attorcigliamo al dito un ciuffo di quei capelli ormai troppo lunghi, ci diciamo che, sì, sono tempi folli. Tempi di quarantena. Folli. “Crazy time” come li chiama Toni Cornell in un video postato in rete qualche giorno fa. Felpona, occhi rotondi di quindicenne, espressione pacificata nonostante tutto. Toni è entrata nello studio di papà Chris. Una fila di chitarre, un cagnone bianco, una foto in bianco e nero del padre a segnare la scena. Un senso di vuoto e di assenza palpabile nonostante siano passati tre anni da quel terribile giorno di Maggio. La quarantena segna presenze e assenze. Chris non c’è. Avrebbe passato il lockdown con la figlia, magari in quello studio a suonare insieme. La quarantena ha unito le famiglie costringendole a guardarsi un po’ di più negli occhi. Ma Chris non c’è, è un’assenza che Toni prova a tramutare in presenza cantando Hunger Strike dei Temple Of The Dog. La sua voce è fresca, celestiale, ma s’arrabbia quando va alla ricerca di una “fame” di vita, esattamente come succedeva con l’ugola di Chris.
Tempi folli, crazy time. Ogni casa è un’isola. Immaginare uno come David Gilmour chiuso in casa è cosa folle. Lui, sempre così pieno di vita, spirito libero. Nella soffitta di casa Gilmour, entrata nelle nostre case per mano di una storia Instagram, una fila di chitarre, un cagnone stavolta scuro, amplificatori, una foto familiare in bianco e nero e la gigantografia della cover di “Animals”, Pink Floyd. E poi David e la figlia Romany che suonano e cantano On A Island, delicatissima ballata, anno 2006. Assieme. La cantano assieme. Dave alla chitarra acustica modulando la voce come storia ricorda, Romany al controcanto, seduta come siede una ragazza di diciotto anni. A riprendere la scena la moglie Polly. La quarantena segna assenze e presenze. David c’è. È lì. Con sua figlia. In un gesto semplice e spontaneo come cantare. Reclusi in un’isola come tutti.
Crazy time. Due fotografie diverse di questi tempi folli. E poi c’è la terza, la nostra. Noi. Ci affidiamo alla musica per riempire l’assenza con la presenza. Ci stiamo riuscendo?