Nel Febbraio del 1987 un giovane Simon Reynolds, dalle colonne del “New Statesman”, cercava di tirare le somme sul fenomeno musicale del decennio: il post punk. Gli artisti esponenti di questo movimento/genere, secondo il critico britannico, erano accomunati da ossessioni e preoccupazioni ricorrenti: alienazione, repressione e tecnocrazia della modernità occidentale. Qualche anno dopo, il 2005 per l’esattezza, nel prologo del suo saggio “Rip It Up and Start Again: Postpunk 1978-1984”, Reynolds ha annoverato David Bowie – al secolo David Robert Jones – tra i maggiori ispiratori dell’etica del cambiamento perpetuo adottata dal postpunk. Lodger era lì, nel biennio ‘78-‘79, stretto in quella congerie evolutiva in cui si immergeva pienamente.
In questo lavoro Bowie intercettava e sintetizzava i tormenti ricorrenti nel post punk, usando il vocabolario del periodo berlinese – non a caso il disco è considerato l’anello finale della trilogia. L’alienazione e la repressione sono state due costanti nella sua fase tedesca: la prima derivante dalle droghe, la seconda un portato del contesto storico della Berlino di fine anni ‘70, in perfetta antitesi con il fermento culturale lì presente, in cui Bowie, alfiere del trasformismo, si era sempre identificato.Il tredicesimo album del Duca Bianco fu registrato tra Montreaux (Svizzera) e New York (U.S.A.) nel 1978, nelle pause di quel tour che portò alla pubblicazione di “Stage”, secondo disco live della discografia dell’artista britannico.
La critica dell’epoca – ma anche quella successiva – riteneva “Lodger” un disco minore, meno teutonico del trittico e non solo perché non era stato registrato fisicamente a Berlino. La minor evidenza di sonorità kraut – seppur presenti – era fuorviante: quelle atmosfere erano state recepite, facevano parte del background di Bowie e si mescolavano alla sua vena artistica digressiva, mai doma di sperimentazione. “Lodger” è considerabile, oggi, al netto della discografia del decennio successivo di Bowie, sperimentale al pari di “Low” e di “Heroes” perché navigava sulla scia dei predecessori, ma lo faceva aprendosi al mondo. Aperture che attingevano al sottobosco delle influenze contemporanee – Talking Heads, The Pop Group, i P.I.L. di John Lydon, ex Sex Pistols – che strizzavano l’occhio alla world music, al crossover di generi senza perdere contatto con il suo passato recente.
In tutto questo c’era lo zampino dell’estro di Brian Eno e di Tony Visconti: il primo più in disparte, a differenza dei lavori precedenti della trilogia, relegato a suonare l’ambient drone, i sintetizzatori, il piano e i fiati. Il secondo, invece, oltre a suonare il basso in fase di registrazione, era il coproduttore insieme a Bowie, artefici, insieme, di queste sonorità iridescenti che daranno il La alle evoluzioni sonore degli anni ’80. Senza dimenticare che l’avvicendamentodi Robert Fripp con Adrian Belew, già nell’ensemble di musicisti di Frank Zappa, consentiva una certa continuità nella costruzione di arrangiamenti e scale in presa diretta.
A episodi proiettati nel futuro come African Night Flight e il suo crossover tribale, l’arabeggiante Yassassin e il pop funk di D.J., si alternano momenti ancorati agli altri due episodi della trilogia berlinese: in Red Sails, nell’ipnotica Red Money e in Repetition risuonano echi kraut. Look Back In Anger – cui i fratelli Gallagher nel 1995 renderanno tributo con la loro “Don’t Look Back In Anger” – e Boys Keep Swinging, invece, si collocano su un terreno mediano, tra il punk e il rock’n’roll, con le schitarrate di Carlos Alomar a rumorizzare la scena. “Lodger” è la terra di mezzo dei voli pindarici cui Bowie ci ha abituati nel corso della sua immensa discografia. È un ibrido cangiante, pronto a diventare altro ma con le radici ben ancorate nel suo presente.
DATA D’USCITA: 18 Maggio 1979
ETICHETTA: RCA