Eddie “il pazzo”, così veniva chiamato. Il selvaggio. Riccioli nocciola, maglietta sdrucita, una faccia che s’accende a intermittenza. Pazzo forse per quella sua forma di libertà assoluta, per quel suo carattere spesso incomprensibile. Un venticinquenne piccoletto, elastico, dalle gambe bianche, intelligente. Qualcosa si sapeva di lui ma non troppo. Si sapeva che aveva una band, i Bad Radio. Che bazzicava dalle parti di San Diego, in California, dopo essersi fatto 30 ore di autobus da Chicago, sua città natale. Ma non si sapeva molto altro di più. Mentre a Seattle decine di gruppi stanno facendo la loro parte, Eddie surfa a Pacific Beach con i suoi amici. È il 1990. Ma chi si fida di Eddie? Che c’entra lui con le faccende che accadono a Seattle? Tutto accade per forza centripeta. Tutto converge lì. Anche la morte. Risucchiata come un’aspirapolvere il 19 Marzo del 1990. La morte di un altro “pazzo”, Andy Wood – il cantante affabulatore dei Mother Love Bone – che ha l’effetto di un meteorite a spazzare via tutto. E che pare la cesura della carriera di tutti quelli che gli gravitano attorno, non solo dei compagni di band. Muore Andy, muore tutto. Acquazzone gelido su Seattle. Buco nero. Fine del film.
Ed Eddie che cosa c’entra a quel punto? Chi è Eddie? Eddie se ne sta coi suoi casini lontano, lontanissimo dallo stato di Washington. Con la sua gamma di incertezze annodate al polso a mo’ di bandana, Eddie è il ragazzo dai tre cognomi, dai due padri (uno morto troppo presto, l’altro smascherato troppo tardi), dalle tre città. Una madre bugiarda, un paio di famiglie, una serie smisurata di adolescenti quasi fratelli ospiti della casa famiglia messa su dalla sua di famiglia. Orfano pure lui, Eddie, beffato, benzinaio, surfista. E tutto a soli 25 anni di vita. Eddie pensieroso e mattatore, ispirato e depresso. Eddie che avrebbe voluto fare l’attore di teatro, suonare la chitarra come Pete Townshend, cavalcare l’onda più alta della California. Eddie scopre che il padre che ha sempre considerato tale è in realtà un patrigno, che il suo cognome è un altro, che il vero padre è morto nel frattempo. Scopre che la madre gli ha nascosto tutto e che la vita è una specie di matrioska di verità nascoste. Eddie Severson, Eddie Mueller, Eddie Vedder (il cognome della madre). Cresceteci voi con questo conflitto di identità.
Ed Eddie “il pazzo”, prima di diventare Eddie Vedder, cantante e leader dei Pearl Jam, è un nodo di candelotti pronto a esplodere. Basta accenderlo o, ancora meno, basta uno scossone involontario per fare il patatrac. E lo scossone arriva quando si ritrova a incidere la sua voce sul nastro che Jack Irons gli recapita da parte di Stone Gossard e Jeff Ament, ancora incastrati tra il dolore della morte di Andy Wood e quella voglia di superare i Mother Love Bone con un nuovo progetto. “Ci sarebbe Eddie il pazzo” – dice Irons a Stone e Jeff, arrovellati alla ricerca di un cantante – “quello che sta in California”. Il nastro contiene tre tracce strumentali Alive, Once e Footsteps. Quando Eddie ci canta sopra puzza ancora di benzina e porta la muta sotto i jeans. Credeva nella musica ma non abbastanza da farne una ragione di vita. Credeva nel successo ma non abbastanza da prendere un aereo verso le mete principali. Fatalmente nel suo gruppo dell’epoca, i Bad Radio, canta un altro Wood (tale Keith) e per Eddie il rock’n’roll è giusto un’ossessione disordinata. Dunque l’incontro con la musica di Stone e Jeff è la scintilla che regola il suo mondo. Una specie di stella cometa a condurlo nel posto giusto. Quando spedisce a ritroso il nastro si accorge che quella musica è la casa per le sue parole e il trampolino per il suo timbro di voce fino a quel momento cavallo chiuso in stalla. E se ne accorgono anche gli altri a Seattle. Eddie viene convocato urgentemente in città. C’è della musica da creare.
Eddie il selvaggio, il cavallo, ora è libero. Non c’entra nulla con Andy Wood. Andy era performer melodrammatico: pitone fucsia al collo, eyeliner nero, ammiccamenti glam. Eddie invece è un ragazzo imbizzarrito, in bianco e nero. Uno dagli alti e bassi vertiginosi e dai silenzi spezzati via da slanci portentosi. Non ha ancora fatto alcun stage dive (come poi farà ripetutamente rischiando l’osso del collo per tutto il primo periodo dei live dei Pearl Jam) ma è uno che il volo ce l’ha dentro sotto forma di ispirazione/aspirazione. Dunque la sua voce arriva a Seattle qualche mese prima di lui, recapitata come un messaggio in bottiglia lungo duemila miglia di correnti dell’Oceano. Non è ancora Vedder, non sono ancora i Pearl Jam, per l’album Ten passeranno ancora dei mesi, ma Seattle grazie a lui pare rinascere improvvisamente svestendo i panni del lutto. C’è vita oltre Wood, sembrò dire quel passaggio cruciale della storia. Una triangolazione di energie. E tutto grazie all’avvento di un ragazzo senza alcuna certezza, se non quella di essere vivo.