Franco Battiato è morto a Milo, settecento metri sul livello del mare, paese arrampicato sull’Etna: lastre di pietra lavica, vitigni carichi, cielo immenso. Una sorta di frontiera del mondo: fuoco, mare, neve a volte, raffiche di pioggia di terra, lo zenit del sole, lo zenit del tutto. E non è casuale che a prendere per sempre le sue spoglie sia un luogo così universale. Un altro, a pensarci, poteva essere lo spazio, degno scenario per un alieno come lui. Non è retorica questa. Il passaporto di un uomo simile è il passaporto di un artista, quindi privo di geografie costanti.
Battiato lascia il mondo della musica migliore di come lo aveva trovato quando, riccioli neri corvini, naso aquilino, occhiali da sole e completi strettissimi, inizia a spostarsi dal suo covo, siamo a metà degli anni Sessanta. Da Giarre a Milano con un pugno di canzoni romantiche ma di protesta diventa il Gaber etneo anche se ormai le sue origini iniziano a sentire l’esigenza di un rimescolamento. Da lì succede quello che succede quando a piombare sulla terra arriva una navicella spaziale. Franco cambia la musica italiana per sempre: tastiere, elettronica, testi intrisi di contenuto e non solo contenitori di parole, un calcio elastico al senso di tradizione e frontiera (linguistica, musicale, culturale), c’è dentro Proust, i classici, il krautrock, il mondo vissuto, immaginato, auspicato, temuto. Mai una canzone neutra. L’amore? È definitivo, immenso, è l’idea d’amore.
Così come il pop. Il pop italiano nasce con Franco Battiato. Che non è musica popolare né tantomeno musica leggera. È il pop rivolto all’Inghilterra, al complesso corteo di caratteristiche che hanno i dischi così incredibilmente cantabili ma allo stesso tempo misteriosi, complessi, taglienti. Chi cerca di seguire Franco, resta alle spalle di Franco. Troppo veloce, imprevedibile. Nelle sue canzoni da fine del mondo, nelle sue canzoni di mondo. Tempo fa Google Maps aveva mappato tutti i posti citati nelle sue canzoni: da Gerusalemme a Istanbul, e poi Cina, Alessandria d’Egitto, il Tennessee, l’Isola Elefante, la Georgia australe, il Tibet, la Birmania, ma anche Venezia, Poggibonsi, la bassa padana e naturalmente Catania. Luoghi visitati e non visitati, evocati, vaneggiati, un po’ Marco Polo, un po’ navigatore di fantasie. Letteraria, politica, teatrale successione di mondi.
Poi negli ultimi tempi, mai domo, si era buttato pure nel cinema, nella riscoperta delle sue radici. Del dialetto, della linguistica applicata alla canzone. Una volta a proposito della Sicilia disse: “Ogni volta che ci ritornavo, prendevo una febbre terribile, quasi come se ne fossi espulso, che non mi volesse più”. Ma era solo la reazione naturale, di gelosia, di una madre per un figlio troppo spesso lontano (col corpo e con la mente). A Milo ora gli andrebbe dedicato un monumento. Ma non una statua di quelle classiche, su cui si poggiano i piccioni. Magari una porta trionfale, un palazzo, una navicella spaziale in marmo, un intero vigneto o forse no: anche giusto un albero, una singola mattonella, un ciuffo d’erba, un granello di terra. Tanto in ogni caso, è solo un punto di partenza.