[adinserter block="3"]
Home RETROSPETTIVE Repeater, il manifesto politico dei Fugazi

Repeater, il manifesto politico dei Fugazi

Gli anni ’80 avevano segnato la definitiva evoluzione degli stilemi del punk dei ’70 in quello che venne definito hardcore punk prima e post hardcore poi, con formazioni come Dead Kennedys, Black Flag, Hüsker Dü, Minutemen, Jesus Lizard, Big Black, Naked Raygun e Minor Threat che, da una costa all’altra degli Stati Uniti e ciascuna con la propria visione, avevano dettato tempi e modi di quel passaggio di consegne. Proprio nei Minor Threat militava Ian MacKaye, chitarra e voce da Washington D.C. che aveva l’hardcore nelle vene come pochi altri. A metà ’80, sciolti i Minor Threat, MacKaye mette in piedi i Fugazi insieme a Guy Picciotto (omologo di ruolo di MacKaye, anch’egli voce e chitarra), Joe Lally (al basso) e Brendan Canty (alla batteria). Lo scopo di MacKaye era quello di fare un ulteriore passo avanti nell’evoluzione di quell’urgenza espressiva che aveva caratterizzato gli ’80 hardcore, proiettandosi oltre e rinfrescando una scena che rischiava di diventare stantia.

Le prime uscite sono EP in cui si sente già, in parte, ciò che i Fugazi hanno in mente, ancora troppo ancorati però al passato dei quattro musicisti coinvolti. Così è con Repeater, il loro esordio sulla lunga distanza, che i Fugazi scombinano le carte sul tavolo e perfezionano una formula che, da quel momento in poi, avrebbe fatto scuola. La storiella che il punk fosse fatto da gente che non sapeva suonare e che l’attenzione dovesse andare tutta ai testi, con i Fugazi smette di avere un senso e un’applicazione automatica. MacKaye, Picciotto, Lally e Canty sono musicisti dotati e trasversali, che pescano da generi tra i più disparati per mettere in piedi le loro invettive anti-sistema.

Su tutti, in “Repeater” prende piede la sezione ritmica del duo Lally/Canty, una miscela di elementi che vanno dal funk al reggae che, appiccicati alla loro indole punk, creano sbocchi melodici fino a quel momento non scandagliati da altre formazioni dall’estrazione analoga a quella dei Fugazi. E poi l’incrocio tra MacKaye e Picciotto, un incrocio non soltanto di trame chitarristiche ma anche e soprattutto vocale, con i due che si scambiano le parti e che, con due timbri parecchio distanti uno dall’altro, sottolineano in maniera differente i vari passaggi delle loro lyrics. Le lyrics, per l’appunto: assalti all’arma bianca alle menzogne dell’Occidente progredito, pugni in faccia per svegliare l’ascoltatore dal torpore indotto dal consumismo dilagante, il superfluo che sommerge le reali necessità, i cittadini divisi in classi, l’indipendenza come manifesto tanto artistico quanto culturale.

Insomma, quello che fecero i Fugazi, in modo particolare con “Repeater” e con ciò che gli girò intorno a cavallo della sua uscita, fu essenzialmente rispettare l’immaginario manifesto politico/sociale che MacKaye e gli altri teorizzavano, mettendosi davvero dalla parte del “messaggio” senza che questo venisse oscurato o, peggio, sminuito dal modo in cui veniva trasmesso. I Fugazi erano una band con un volto stilizzato, che durante i propri live − spesso, spessissimo a ingresso gratuito − azzerava la distanza fra sé e il pubblico, una band che supportava le fasce deboli della popolazione (a partire da quelle di una Washington D.C. che ai tempi era una città con un preoccupante substrato di malessere e violenza) con raccolte fondi e iniziative benefiche, una band che “concedeva” la propria musica, il proprio “messaggio”, in modo che potesse diffondersi il più possibile e con meno filtri possibili. Una band come non ne sono più venute fuori.

Repeater

Nessun commento

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Exit mobile version