L’immagine è una prigione, un’ossessione. Un chiodo fisso. L’immagine di Kurt Cobain, la stessa da trent’anni: cascata di capelli biondi, pizzetto, occhi persi. Quel maglioncino verdino a New York, quella chitarra mancina. Un’immagine che non si aggiorna, non va avanti. Ventisette anni eterni, né una ruga, una ciocca canuta. Tutto immobile. Anche la vecchia New York ha cambiato faccia nel 2001, ma Kurt no, è sempre quello. Connotati che non evolvono e che si arenano, ma che vengono riprodotti all’infinito nel gioco dell’abbuffata iconografica. L’immagine di Cobain triplicata, quadruplicata, vomitata, ci piove addosso dai motori di ricerca, dalle copertine delle ennesime biografie, dagli speciali, che è un po’ come correre da fermo, come sfiancarsi su un tapis roulant bullonato al pavimento.
Che strano modo di parlare del trentesimo anniversario della morte di Kurt Cobain questo, me ne rendo conto, ma il fatto è semplice. Il tempo perenne, allungato, elasticamente deformato, ci sta portando al vuoto, sì, anche rispetto alle nostre icone popolari preferite. Da un lato questi ragazzi morti giovani senza la possibilità di progredire nel tempo, dall’altro la proliferazione dell’annversario: dieci, quindici, venti e venticinque, trenta e trentacinque e poi chissà quanti altri anni, nel groviglio infiito delle bobine riarrotolate.
Anche Kurt protesterebbe: “Fanculo lasciatemi in pace” – voce roca e tiro di sigaretta si accartoccerebbe su se stesso come un ragno. Kurt è come Cristo, inchiodato sulla croce da duemila anni, fermo lì coi ferri ai polsi. Kurt Cobain crocifisso. Un’immagine potente. Forse blasfema. Ma crocifisso da chi e da cosa? Da se stesso ovviamente, da una vita breve per contratto dell’esistenza. Non avrebbe avuto nessuna speranza di andare avanti, la durata l’aveva già decisa il destino. Oggi non avrebbe avuto nessun posto in questo mondo, che non è il suo. C’entra zero lui con questo mondo. Non esiste nessuna immagine per immaginarsi Kurt oggi. Magari anziano, ingobbito, arrabbiato e senza chitarra. No, non avrebbe fatto musica, possiamo scommetterci.
E poi Kurt crocifisso significa pure dell’altro. La crocifissione di un mondo che non esiste più e che ci incaponiamo nel celebrare con regolarità. La crocifissione di Kurt Cobain è una metafora di questi tempi in cui si resuscita sempre tutto e tutti. No, questa gente è morta e sepolta, facciamocene una ragione. Elvis è morto una volta, non per questo i nostri genitori lo tirarono in ballo ancora e ancora e ancora. Impariamo a vivere senza di loro. Kurt è morto, si è sparato. Lo sappiamo bene, fino alla nausea. Kurt ha scritto canzoni che ci hanno strappato la pelle, sappiamo perfettamente anche questo. E sappiamo che ci ricadiamo sempre, ma quello fa parte dei sentimenti. Fa parte della scatola-a-forma-di-cuore in cui restano incastrate tutte le cose che non controlliamo.
L’immagine che non c’è: per strada un ragazzino strattona il vecchio Kurt. “Sei un dinosauro Cobain!” – gli fa – “La tua musica è il passato”. E Kurt atterrito cerca riparo in un supermercato. Le sue mani sono tremanti, ha il collo solcato da rughe, veste un paio di panntaloncini blu con una cinta a tenerglieli su e poi ai piedi calza un paio di espadrillas bordò. Qualcuno gli viene in soccorso, gli allunga un bicchiere d’acqua. “Ha qualcuno a cui chiamare?”, “Chi c’è a casa?”. Lui ingolla l’acqua rapidamente e se ne va perdendosi tra i palazzi spellati dal caldo.
La crocifissione di Kurt Cobain è un’immagine blasfema. Ma necessaria. Facciamolo una volta per tutte. Guardiamo Kurt sadicamente dal basso all’alto, fissiamo la sua testa ciondolare esanime. Facciamolo il prima possibile. E poi liberiamocene una volta per tutte. Liberiamolo. Facciamolo prima che si invertano i ruoli. Con Kurt, caschetto biondo, pizzetto e occhi persi, a volgere lo sguardo verso l’alto e trovarci, invece, noi su quella croce.