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I Led Zeppelin dopo “Stairway To Heaven” avevano spinto totalmente sull’acceleratore di quelli che poi, grazie principalmente alle loro avventure, saranno conosciuti come cliché del rock’n’roll. La più grande, enorme, autoindulgente, narcisistica rock band del mondo, dato che gli Stones (che dopo “Exile On Main St.” inizieranno la loro fase calante) preferivano fare i viveur con gli intellettuali, continuava musicalmente a non sbagliare un colpo, ma il contraccolpo di una vita completamente esagerata, vissuta ormai da anni e anni, stava per arrivare, per ragazzi che, in fondo, erano pur sempre neanche trentenni (tolto Jimmy Page, il “vecchio” del gruppo, che i trenta li aveva superati da poco).
Plant (che nel corso dell’anno avrà un gravissimo incidente automobilistico e che perderà il figlio Karac pochi anni dopo) aveva subito un’operazione alle corde vocali; Page, distrutto da due fallimentari relazioni sentimentali, una con la quattordicenne Lori Maddox, l’altra con Bebe Buell (futura madre di Liv Tyler), decise che l’eroina poteva essere un metodo per essere più creativo; Bonzo, che alle sessioni di Physical Graffiti si presentò con 1.500 pasticche di Mandrax (i Quaaludes di “The Wolf Of Wall Street”), totalmente fuori controllo con cocaina, alcol, peso, violenza; e infine John Paul Jones, stanco di stare lontano dalla famiglia, che meditava seriamente di abbandonare il gruppo.
Cinque album eccellenti erano già alle spalle di questa enorme band, questo enorme Tirannosauro che dal primo momento sembrava già la rock band perfetta. Ma “Physical Graffiti” è forse la summa della perfezione zeppeliniana, l’apice non solo della band ma uno dei più incredibili momenti della storia del rock. Registrato in parte nel 1974 e in parte frutto di registrazioni scartate dagli album precedenti, “Physical Graffiti” colpisce ancora oggi, a quarantacinque anni di distanza, per una freschezza e una perfezione sonora incomparabile. Un perfetto equilibrio nel mix, un Bonzo perfettamente cristallino e contemporaneamente pesante come una mandria di elefanti, una Les Paul tagliente, ricca, piena, un basso che detta il groove come un maestro d’orchestra e infine la voce di Plant: più matura, più graffiante e allo stesso tempo più eterea, più angelica. Merito dell’eccellenza alla produzione di Jimmy Page, certo, ma anche dello straordinario talento di tutti e quattro gli interpreti.
Due dischi, uno introdotto da un pezzo à la Bo Diddley moltiplicato per cento (Custard Pie), l’altro da una sorta di cosmic rock che risulterà uno dei pezzi migliori della storia del dirigibile (In The Light), uno chiuso da un epico, mistico capolavoro progressivo ispirato dalla musica mediorientale (Kashmir), l’altro chiuso da un pezzo di rara ferocia (Sick Again) e nel mezzo lo scibile del rock’n’roll: blues tradizionale, pop rock, progressive, folk rock, boogie woogie.
L’equilibrio tra epici capolavori come Ten Years Gone e In My Time Of Dying e la leggerezza di brani “minori” come Boogie With Stu o Bron-Yr-Aur è semplicemente perfetto e dimostra una sicurezza dei propri mezzi straordinaria: non è da tutti ripescare pezzi scartati per dare un equilibrio a qualcosa di nuovo ed estremamente ambizioso! Ma del resto Page nella sua veste di produttore è persino meglio che come chitarrista, e forse addirittura sottovalutato. Come non sentire dei paralleli tra il suono della batteria in quest’album e quello di Dave Grohl in “In Utero”?
Forse sarà questo tipo di indulgenza musicale a ispirare il punk, ma “Physical Graffiti”, a guardarlo a distanza, rimane un gigantesco, insuperato monumento al rock, eseguito da quattro maestri all’apice della loro carriera, un capolavoro irripetibile al quale il rock, morente e rantolante, dovrebbe guardare. Non tanto cercando di imitarne i contenuti, ma cercando di imitarne l’ambizione e la dedizione alla perfezione.
DATA D’USCITA: 24 Febbraio 1975
ETICHETTA: Swan Song