«Il secolo breve è finito, ragazzi». Sembra una voce che arriva dal corridoio. E in corridoio, lì non c’è nessuno. Apri la porta: e non c’è più nessuno. Dalla finestra, guardi. Ma non c’è nessuno. Per i suoi strani, schizofrenici motivi, il 2016 passerà alla storia della musica (limitiamoci a quella) come un anno cardine, splendido e terrificante. E tu volevi farne parte, Leonard, non è così? C’è questo articolo di David Remnick che val la pena leggere, sul The New Yorker. Se si è umani, quantomeno. Basta la minima percentuale. È una tua cronistoria breve e assai precisa. Ma soprattutto, c’è quella lettera che hai scritto a Marianne. Pochi giorni prima che morisse. Come se già sapessi tutto, come sempre. Come tu hai sempre, sempre saputo tutto; senza sapere niente.
Marianne, è giunto quel momento in cui entrambi siamo così vecchi che i nostri corpi cadono a pezzi, e io penso di seguirti molto presto. Sappi che ti sono talmente vicino che se tendessi la tua mano, penso potresti raggiungere la mia. E tu sai che ti ho sempre amata per la tua bellezza e la tua saggezza, ma non ho bisogno di dire altro a riguardo, conosci tutto. Adesso voglio augurarti soltanto buon viaggio. Addio vecchia amica. Infinito amore, ci vediamo lungo la strada.
È un momentaccio Leonard, tu l’hai visto. Dio solo sa se avremmo bisogno di te. Di una canzone, un inno, un collante. Di una poesia da leggere, da raccontare. Sei stato tu il più grande cantautore. E ancora oggi c’è chi ripete il suo mantra. Che chi strimpella, no: non è poeta. Vadano pure per la loro strada. La mia l’ho scelta quando avevo 13 anni. E la tua voce che girava, girava, danzava. Fino alla fine dell’Amore, Leonard; so Long.
Tu vattene per la tua strada
che io andrò per la tua strada.
(Leonard Cohen, “The Sweetest Little Song”)