Le polemiche che si sono scatenate intorno a L’Ultimo Concerto mi ricordano tanto, pure troppo, le annose diatribe che devastano la sinistra italiana dal suo interno fin da quando ho memoria e che l’hanno portata praticamente a sparire: autoreferenziali, pretestuose, scollate dalla realtà. In una sola parola: inutili, totalmente inutili. Quell’inutile “io me la canto e io me la suono” che anziché essere costruttivo finisce per fagocitare le poche energie residue di tutti. L’evento − che alla fine evento non era − ha rappresentato decisamente bene, checché se ne dica, il bagno di sangue che stanno affrontando artisti (soprattutto i piccoli), venue (soprattutto le piccole), maestranze (soprattutto loro), agenzie di booking e marginalmente tutti i fruitori di musica dal vivo, rimasti orfani di un qualcosa che va di gran lunga oltre la scelta di un modo in cui trascorrere una serata infrasettimanale dopo una giornata in ufficio.
A prescindere dall’ingenuità di troppi che hanno davvero creduto potessero svolgersi oltre 130 concerti, in simultanea, con pressoché lo stesso pubblico di riferimento, gratuitamente, in diretta da locali chiusi da un anno e chissà per quanto ancora. A prescindere dagli errori di comunicazione di un po’ di addetti ai lavori, che si sono scagliati in modo incomprensibile e forse controproducente contro la legittima − sebbene superficiale − delusione di larga fetta di coloro che, alle prese con un’incolmabile crisi d’astinenza, si sono collegati al sito dell’evento trovandosi davanti a un fragoroso nulla. A prescindere da tutto questo, ciò che è sfuggito a tanti è stato un sottotesto − tra gli altri − che a me è parso piuttosto evidente: l’assoluta impossibilità di immaginare ancora, anche soltanto immaginare, un mondo in cui ci si possa accontentare di partecipare ad eventi in streaming. Perché di quello si tratterebbe, restando così le cose, ovvero di reinventare (con alta probabilità di fallimento) un intero settore.
Il mio ultimo concerto, concerto vero, di quelli con la spensieratezza di quando si stava meglio perché si stava oggettivamente meglio, sono stati i Calibro 35 al Fabrique di Milano, il 19 Febbraio del 2020. Da quel momento in poi sono riuscito con fatica, lo confesso, a tenermi a distanza dalla miriade di live streaming che hanno tempestato la rete. Questo non per far mancare il mio supporto al mondo in crisi della musica dal vivo, cui negli anni ho indirizzato gran parte delle mie risorse. Più che altro per autoimpormi una resistenza in senso lato, per non arrendermi e rischiare di assuefarmi a roba del genere. Ho rinunciato agli svariati streaming dei Pearl Jam (compreso quello del live a Roma del 2018, in cui ero presente e che in altre condizioni mi sarebbe piaciuto rivedere), ho rinunciato al meraviglioso “Idiot Prayer” del solitario Nick Cave dell’Alexandra Palace, ho rinunciato ai Melvins che volevano farmi gli auguri di buon anno, ho volutamente rinunciato a questo e a tutto il resto. Gettando così sale su una ferita che non s’è ancora rimarginata, per me come per tutti, aspettando tempi migliori che mese dopo mese hanno tardato e tardano ancora drammaticamente ad arrivare.
Quindi nel momento in cui sabato 27 Febbraio, puntuale alle ore 21:00, mi sono collegato per capire cosa sarebbe successo (proprio perché no, non m’aspettavo affatto dei “classici” concerti) e mi sono reso conto di ciò che davvero stava accadendo, ho tirato una sorta di metaforico sospiro di sollievo, interpretando − magari a torto − il silenzio dei Lacuna Coil e di Manuel Agnelli, dei Marlene Kuntz e dei Tre Allegri Ragazzi Morti, di Diodato, di Cosmo, di Max Collini e di tutti gli altri come un sonoro vaffanculo a una formula che non funziona, che non può funzionare. Che io non voglio funzioni, mettiamola così. Non ci si può accontentare, non dobbiamo accontentarci di vivacchiare, di sopravvivere, di tirare a campare. E non dobbiamo farlo noi, fruitori appassionati di musica dal vivo, anche per consentire a chi con questa filiera porta il cibo sulla propria tavola di continuare a farlo. Quel vaffanculo è stato il mio vaffanculo, che ho tenuto in canna per mesi e che adesso qualcuno più bravo di me con le parole ha tirato fuori senza neanche usarle, le parole.
Si è obiettato da più parti che il target cui si è rivolto questo non-evento fosse sbagliato, in quanto fetta di pubblico già sensibilizzata sul tema. Ed è probabilmente vero, perché sarebbe presuntuoso derubricare la delusione di tanti a pura voglia di ottenere qualcosa gratuitamente, così come sarebbe utopico pretendere che una protesta del genere possa aver colpito in qualche modo ambienti mainstream (anche se la partecipazione di uno come Ligabue potrebbe anche aver colto nel segno). Allo stesso modo non reggono troppo le similitudini con un canonico sciopero invocate da qualcuno, visto che uno sciopero per definizione interrompe un servizio, crea un qualche disagio, mentre qui è tutto già interrotto da un pezzo e il disagio ha ormai raggiunto livelli difficilmente superabili. È stato più un serrare i ranghi, quindi, un appello a esserci adesso, tutti, con la promessa di esserci nuovamente, tutti, domani o dopodomani o quando sarà.
Vogliamo sentire di nuovo il “clack” dei jack, vogliamo spie che s’accendono, luci che accecano, chitarre in feedback, amplificatori che gracchiano, spillatrici che inarrestabili riempiono bicchieri, tutti rumori e sensazioni che nessun surrogato potrà mai riprodurre in modo parimenti coinvolgente. Ma finché tutto ciò non sarà di nuovo possibile, dobbiamo anche volere che la musica dal vivo e più in generale l’arte e la cultura non vengano trattate in questo Paese come aspetti sacrificabili e rinunciabili delle nostre vite, e dobbiamo volere che chi ci lavora abbia gli stessi diritti e gli stessi aiuti di tutti gli altri, senza sconti e senza eccezioni, in modo da averli − e questa è una valutazione egoistica, ne sono consapevole − pronti a riprendere dall’esatto momento in cui hanno interrotto le loro attività, senza che nessuno venga lasciato indietro. Ed è per questo che il manifesto de L’Ultimo Concerto, quantomeno adesso col senno di poi, va capito, sottoscritto, supportato e urlato a gran voce anche da chi non l’ha fatto in prima battuta, per permettere che il silenzio assordante del 27 Febbraio cessi e non debba ripetersi mai più.