All Things Must Pass
George Harrison
“All Things Must Pass”, 1970
I colori di Friar Park in inverno sono spenti. Abeti rinsecchiti, rocce alpine, statue stravaganti ricoperte di muschio. E grotte, caverne, gnomi disseminati in venticinque ettari di giardino all’inglese. Le guglie della residenza vittoriana sono rosso mattone con certe cancellate a righe ancora rosse. George Harrison acquista questa villa (120 stanze, costruita nel 1889) che i Beatles sono sul passo d’addio. Avviene tutto a inizio del 1970. La band cammina verso “Let It Be”, ma sa di essere morta. E tutto finisce proprio in quelle settimane d’inverno dai colori spenti: scenografia irrinunciabile di ogni addio. George si trova in villa quando gli viene in visita Phil Spector, il guru della produzione. “Andai da George a Friar Park – racconta Spector – e George mi disse: Ho qualcosa da farti ascoltare”. Mentre i Beatles si consumavano, Harrison guardava avanti. Le canzoni che fa ascoltare a Spector sono ciò che poi diventerà All Things Must Pass”, non il primo album solista di George ma quello emotivamente più intenso, proprio perché il primo senza l’ombra dei Beatles. La title track è una ballata dolce, balsamo di violini e chitarre. Harrison canta:
Tutte le cose devono passare
Nessuna delle corde della vita può durare
Quindi devo restare sulla mia strada
Ed affrontare un altro giornoE quando lo fa si riflette in uno di quegli specchi arzigogolati della sua tenuta a Friar Park. Alle sue spalle il vuoto di una stanza enorme e le finestre imbiancate. Non ci sono più i suoi amici. Non c’è più la band. Ora si ricomincia. È un nuovo giorno. Si può.