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#MySong: “New Year’s”, Codeine

New Year’s
Codeine
“Frigid Stars”, 1990

Il rock non ha regole. Anzi no, ne ha una: se qualcuno da qualche parte lo fa in un modo, qualcun altro da qualche altra parte ne proporrà una versione opposta. La storia è piena di post, new, sorpassi e reazioni, basti pensare al tiramolla tra punk e wave o all’evaporazione dell’estetica ’80 nell’effetto serra degli anni Novanta. Anche i Codeine partirono da un opposto: se a inizio Novanta, a Seattle, il grunge mostrava il delirio naif di una generazione che trasbordava insoddisfazione e che voleva urlarla al cielo, loro preferivano rimanere nella chiusa di un appartamento a sorseggiare caffè pensierosi. Oppure a spiare con un cannocchiale le stelle così lontane e irraggiungibili. Frigid Stars è un viaggio in cui a trionfare è la lentezza, la narcolessia. I tempi della batteria di Brokaw sono dilatati fino a sfibrarsi, la voce pestata di Immerwahr suggerisce stati catatonici, gli arpeggi sonnolenti di Engle sono gli ultimi blandi riflessi di un corpo che s’addormenta. I Codeine non raccontano le vite disgraziate della generazione X, sperano piuttosto che il “sole li illumini”, come salmodia Immerwahr nella epocale Pea. Oppure New Year’s, una canzone ossimoro. Fuori un nuovo anno che inizia con l’euforia dei giorni di festa, così pomposi, bulimici e rumorosi. Dentro, un termosifone dannatamente bianco e un macigno nello stomaco. “Oggi è un altro giorno che fai quel che puoi – canta Immerwahr – tutti i nostri amici sono andati via, qui nel mio castello mi schiaccio la faccia”. E il castello resta con il ponte levatoio alzato per un altro anno ancora.

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