Stomp
Uzeda
“Different Section Wires”, 1998
Entri in un negozio di vestiti. È bianco, luccicante. Di un bianco che cava gli occhi. Tutto è dannatamente normale in quel negozio. Banale. Ripetitivo. Come il po-pe-pa-pa-pe-po di un tamburo, come il rintocco di un metronomo. C’è silenzio, noia, una commessa mastica un chewingum, un filo d’aria smuove le punte degli abiti in esposizione. Ma succede qualcosa. Non sai come, ma succede. Sbatte una porta. Cambia la luce. S’incunea un frastuono. Le pareti si contorcono, si ritraggono, molli come gomma. Un ronzio di moscone entra in scena o forse è un basso ben assestato. Arriva la commessa, quella che prima aveva una faccia ordinaria, ora ha un volto avvitato in un buco nero: “Che taglia porta signora?” – ti chiede con voce rivoltante. E tu ti giri perché speri non ce l’abbia con te. “Signora che taglia? La taglia? La sua taglia ha capito?”. Senti il terreno che cede sotto i piedi. Ti guardi le mani, non le riconosci. Ti tocchi la faccia, non la riconosci. Poi si scoperchia il tetto. Sulla testa volano uccelli dagli occhi iniettati di sangue. Hanno la forma di chitarre distorte. È L’INFERNO TUTTO QUESTO? – Pensi. È la pazzia? Senti di essere pazza. Senti di essere posseduta. “Quale la sua taglia, signora? Signora parlo con lei”, boom, boati, scricchiolii. Taglia, rumore, pareti, mani, naso. Ti reggi a un bancone, pensi: “Ora devo stare calma. E saggia. E capire cos’è che devo fare. Non in un modo scontato. Non in un posto speciale. O in una sera speciale come questa”. Un urlo ti scuote, è disumano, ma soprattutto è il tuo di urlo. È la tua voce. Tu però hai la bocca chiusa. Serrata. Sbatte una porta. Di nuovo. Di nuovo un po-pe-pa-pa-pe-po di un tamburo, di nuovo le pareti bianche. I vestiti appoggiati. La noia. Esci di corsa. Il cuore batte. Ci scrivi una canzone.