The Great Gig In The Sky
Pink Floyd
“The Dark Side Of The Moon”, 1973
Questo pazzo mondo. Che ti addenta, ti mastica e ti sputa via. Quant’è spettinato Roger Waters in quel periodo. Dorme male, rimugina peggio. Alle volte non risponde al telefono per quanto abbia da scrivere. C’è questo mondo pazzo da raccontare: avido di soldi, torturato dalla fretta, sferragliato dalla follia, dalla incomunicabilità e poi, certo, ossessionato dall’idea della morte. Roger se lo chiede più volte: “Come si descrive la morte? Come si mette nero su bianco la paura di morire? Come si trova forma a quel chiodo fisso?”. E si ribalta nella poltrona per trovare una soluzione, si tarantola sulla scrivania. Ha scritto dei testi magnifici per “The Dark Side Of The Moon”, ha scritto “Us And Them” oppure “Breathe” o anche “Eclipse”. Sì, ha colto nel segno in quelle liriche. Ma con la morte no, non riesce a venirne a capo. La morte necessita di parole? – si ossessiona. No. Si ascolta il dolore e basta. È così che, un giorno, Alan Parsons interviene dicendo che una cantante di nome Clare Torry ha un timbro vocale che potrebbe aiutare la causa. Clare viene convocata agli studi di Abbey Roads e la band le chiede l’impossibile: cantare la morte senza usare parole. Questa impresa si chiama The Great Gig In The Sky, forse il momento più intenso di “The Dark Side Of The Moon”. Dunque Wright si mette al piano e ricama un giro, Gilmour distorce dolcemente una chitarra, Roger è lì. Poi arriva Mason che dà due colpi di tamburo, eccolo, è il segnale: Clare parte col canto. Un gorgheggio altissimo, celestiale, una tormenta di neve finissima, la trasvolata di un aeroplano che squarcia un taglio nel cielo. Le orecchie di ognuno prese e caricate a bordo di questo volo pindarico. Clare non dice una parola, libera la voce che si modella come un liquido: s’incunea, si ritrae, inonda, s’asciuga. Lacrime e pioggia si mescolano nel sapore in bocca. E la morte scopre la sua faccia: quella di una creatura dagli occhi celesti e dai tratti incerti.