*DUN DU-DUN*
*DUN DU-DUN*
*DUN DU-DUN*
“I’m an alligator… I’m a mama papa comin’ for you”
Strano, potrebbe pensare qualcuno, che una miniserie sui Sex Pistols inizi con sua maestà Ziggy Stardust all’apice dell’era del glam – e vediamo proprio David Bowie sul palco, in un colorato, scintillante montage che mostra la Londra dell’epoca con immagini di repertorio montate come in uno spot anni ’90. Ma ecco un ragazzo dall’aspetto non propriamente di chi fa il fotomodello arrampicarsi goffamente su una finestra sul retro dell’Hammersmith Odeon: è proprio Jonesy (Steve Jones, interpretato da un meraviglioso Toby Wallace) che, come saprà chi ha letto la bellissima autobiografia “Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol”, si introduce nel teatro per rubare quanta più attrezzatura possibile per la sua band.
Non preoccupatevi, non è nostra intenzione spoilerare l’intera miniserie – posto il fatto che per il fan medio dei Pistols non ci sono certamente colpi di scena à la Red Wedding – ma tracciare quello che è un po’ il template per la miniserie: pop, glam rock, (un pochino di) punk, colori sgargianti, Londra di repertorio che incorniciano brevi attimi di vita Jonesiana. Pop, estremamente pop. Colorata, come la copertina di “Nevermind The Bollocks”; frenetica, come del resto dev’essere stata la vita dei Pistols nel breve periodo di gloria vissuto come band; giovane, fottutamente giovane, com’erano giovani Jonesy, Lydon/Rotten, Cookie, Matlock, Ritchie/Vicious e ancora Chrissie Hynde, Nick Kent, Nancy Spugen… e poi ancora Richard Branson, Jordan Mooney, Siouxie Sioux, Billy Idol.
La parabola dei Sex Pistols, a dispetto dell’anticonformismo manifestato e dell’indubbia rivoluzionarietà della band, segue uno schema che ogni amante del rock (o dei biopic) conosce bene: gli outsider a cui nessuno darebbe un centesimo che con volontà e determinazione riescono a raggiungere il successo che il loro talento meriterebbe, il successo dà loro alla testa, arrivano le droghe, tutto va a puttane. Manca il momento di redenzione, ma diciamo che lo schema è abbastanza conosciuto; e dallo schema, nonostante le possibilità offerte dal medium e dalla straordinaria originalità dei personaggi, fatica tremendamente a discostarsi Craig Pearce, autore e showrunner della miniserie e già sceneggiatore per numerosi film di Baz Luhrmann, inclusi “Moulin Rouge!” (2001) e il recente (e ottimo) “Elvis” (2022). Pearce adatta il libro di Steve Jones trasformandolo in una sorta di “Sex Pistols for dummies”, e piazza momenti di profondo imbarazzo (cringe, direbbe qualcuno più giovane di noi) già nei primi minuti della prima puntata, con un “I don’t want to fuck you… I want you to fuck the world” messo in bocca a Malcom McLaren nel primo scambio col nostro protagonista; momenti di cringe che, purtroppo, non accenneranno a scemare nel corso dei sei episodi della serie.
Lo stile iperattivo di Danny Boyle, che dirige l’intera miniserie e la produce, incomincia un po’ ad evaporare quando diventa palese che l’introspezione psicologica non è di queste parti e, fatti salvi alcuni momenti in cui entriamo nel personaggio di Jonesy e nelle sue motivazioni, nei suoi dilemmi, nei suoi dolori, personaggi che nella vita sono stati ricchi, complicati, tremendamente affascinanti nella loro imperfezione rimangono solo colorati schizzi di esigua sostanza, tanto che in oltre cinque ore di serie sembra quasi sia tutto incompleto, abbozzato, poco approfondito.
A questo punto, i lettori che non abbiano abbandonato saranno certamente scoraggiati alla visione di Pistol, ma tenete duro ancora un attimo, perché alla fine della fiera la serie, lungi dall’essere un capolavoro, ha diversi punti di forza che la rendono un prodotto di intrattenimento sicuramente piacevole, pur coi suoi difetti. Il primo, il quadro dipinto della Londra di quegli anni: eccitante, rumoroso, risqué, pur se qualche angolo è stato smussato. Il secondo, una selezione musicale eccellente, che ci ricorda come Boyle è pur sempre il regista di quell’opera meravigliosa che resta la trasposizione cinematografica di “Trainspotting”, con una colonna sonora che è entrata a tutti gli effetti nella leggenda. Boyle coglie pienamente il senso del rock’n’roll nella vita di Jonesy, e il senso del pop nella Londra anni ’70.
Il terzo, ma di gran lunga il più importante, la straordinaria vitalità e bravura del giovane cast: abbiamo detto di Toby Wallace, che col suo carisma tiene in piedi la baracca dall’inizio alla fine e dà a al suo personaggio una profondità che certamente ha nella vita, ma che emerge raramente dalla scrittura; ma non sono da meno Sydney Chandler, Anson Boon e Thomas Brodie-Sangster, rispettivamente Chrissie Hynde, Johnny Rotten e Malcom McLaren: tutti e tre fanno un lavoro ottimo con un materiale non eccelso, e rendono giustizia a tre personaggi fondamentali non solo per la storia dei Pistols, ma per la storia della musica rock. E chissà se a John Lydon è passata l’incazzatura che lo ha portato, prima ancora che la serie andasse in onda, a definire Pistol “the most disrespectful shit I’ve ever had to endure” vedendo la straordinaria performance del giovane attore inglese. Avendo fatto causa (e perso) per la serie agli altri tre Pistols ci permettiamo di dubitarne, ma non si sa mai.
Infine, una nota a margine per quella che è uno dei grandi classici della storia del rock: la storia di Sid & Nancy, naturalmente presente anche qui, sulla quale Pearce usa un’empatia forse senza precedenti nel trattare le vicende di queste due icone pop (che invero poco hanno a che fare con il rock, se non per la loro tragica fine); uno dei pochi casi in cui la scrittura fa totalmente centro all’interno della serie, aiutata anche qui dalle ottime performance di Emma Appleton e Louis Partridge.