Galleggia, Polly Jean, nella copertina di To Bring You My Love. Vestito rosso e labbra in tinta, reminiscenza e conferma della sensualità e della carnalità dirompenti di “Dry” (1992) e “Rid Of Me” (1993), ma c’è una leggerezza che non sta solo nell’elemento che la circonda, l’acqua, ma anche negli occhi chiusi, nelle ciglia lunghe e in quel mento che tende al cielo, nei capelli che lievitano, nelle braccia morbide lungo il corpo. Ecco, il rossetto sbavato di “Dry” e la nudità e la capigliatura scomposta e inzuppata di “Rid Of Me” sono distanti, così com’è distante l’approccio stesso che PJ Harvey mette nella stesura del suo terzo lavoro in studio, il primo da quando ormai un po’ tutti la considerano un’artista di caratura mondiale.
“To Bring You My Love” mette da parte il punk, il garage e le distorsioni in quota grunge del recente passato e immerge PJ in un blues acido e scurissimo attraverso il quale la songwriter inglese parla ancora di donne e desiderio (Meet Ze Monsta), di figli e di maternità malata (il dirompente e simbolico singolo Down By The Water, ma anche l’esplicita I Think I’m A Mother), di uomini che le donne non le vedono (Working For The Man) e di donne che nonostante tutto continuano a desiderare la presenza di quegli uomini (C’mon Billy), di agognata morte (Teclo) e di quell’amore che puoi fuggirlo quanto vuoi ma continuerà sempre a mancarti (Send His Love To Me).
L’organo, gli archi, la voce perennemente inghiottita da un mostro interiore che la divora, accentuano le suggestioni di un album che se s’alleggerisce musicalmente al contempo si fa liricamente e atmosfericamente decadente, pesante e sporchissimo, influenzando in modo indelebile quelli che da lì in poi sarebbero stati i tratti distintivi dello stile della Harvey. La produzione affidata a Flood e John Parish fa il resto, elevando la dimensione di PJ da quella di frontwoman e titolare di un trio a quella definitiva di songwriter che parla e scrive solo per se stessa.
DATA D’USCITA: 27 Febbraio 1995
ETICHETTA: Island