“Ero da anni in tour con Claudio Baglioni, riempivamo lo Stadio Olimpico, 80.000 persone, un numero impressionante. Sono passato da stanze in alberghi di lusso e voli in business class a un tour bus fuori uso, sistemazioni modeste e live con sole 30 persone. Non so se mi spiego”.
A parlare è Gavin Harrison e il famigerato concerto con 30 spettatori è una delle date che precedevano l’uscita di In Absentia. Cos’è andato storto, perché il rigore marziale di Steven Wilson ha toppato? Che senso avrebbe avuto imbastardirsi firmando con una major (Lava/Atlantic Records) se comunque non sarebbe cambiato nulla? Ma soprattutto, siamo certi che qualcosa, davvero, non abbia funzionato? Il clima che circonda l’uscita del settimo album dei Porcupine Tree non è dei migliori, fosse anche solo per l’abbandono del batterista Chris Maitland, immediatamente dopo le prove propedeutiche alla registrazione dell’album. Salutato Maitland con un laconico “We would like to wish him well for the future”, Wilson non ha alcuna intenzione di lasciarsi sfuggire un’occasione del genere. Sa bene che i 30 del Middle East Club di Cambridge non hanno alcun valore pratico. Quello che conta è il risultato finale, come quella sera che si erano dovuti arrangiare al Bottom Line di NY con un impianto audio mezzo rotto ed erano comunque riusciti a finire nel mirino dell’Atlantic.
Complice l’amicizia con gli Opeth, il senso di insoddisfazione perenne di Steven Wilson e la perfetta sintonia tra Harrison, Edwin e Barbieri, “In Absentia” aprì le porte a un lungo percorso di mutabilità che condusse i Porcupine Tree all’investitura definitiva di band heavy-prog. Una miscela perfetta di chitarre acustiche e distorte, bassi snelli, percussioni che picchiano come stilettate. L’apertura ansiogena, affidata al riff di Blackest Eyes, regalato alla band da Mikael Åkerfeldt degli Opeth, riesce a veicolare un timore e un’angoscia mai percepiti in nessuno dei precedenti lavori del gruppo; a seguire Trains, incantevole regina triste, una delle tracce più belle di tutta la loro discografia.
Lips Of Ashes, con la sua opening a base di dulcimer martellato e Collapse The Light Into Earth ti soffocano con una fragilità quasi infantile. La perfezione nelle esecuzioni di ciascuno dei Porcupine e la produzione maniacale di Wilson fa sì che le sfumature cangianti di ogni singolo strumento siano chiare, con una sensazione quasi tattile. The Sound Of Muzak mostra Gavin Harrison in tutto il suo splendore, la distorsione malefica di The Creator Has A Mastertape penetra nelle ossa, arrivando ad alterare i toni bianchissimi di Wilson; le strumentali Wedding Nails, Strip The Soul adottano ancora un approccio più pesante: basso in apertura, chitarre cariche di distorsione, tempi velocissimi e lentissimi.
In copertina, un autoritratto gelido del fotografo Lasse Hoile che Richard Barbieri commentò così: “È strano, lo definirei un po’ inquietante, ma alla fine è un bravo ragazzo”. Nonostante l’egida dell’Atlantic, “In Absentia” inizialmente andò a rilento ma non fu il successo commerciale a dettare le sorti del suo impatto artistico. L’ostinazione di Steven Wilson lo spingerà a intraprendere la carriera da solista poco meno di un decennio dopo e a respingere ogni tentativo di identificazione perpetua tra lui stesso e quest’album. Ma, che gli piaccia o no, “In Absentia” continua a vincere la prova del tempo senza alcuno sforzo.
DATA D’USCITA: 24 Settembre 2002
ETICHETTA: Lava