18 Febbraio 1990: i Queen si presentano ai BRIT Awards, l’equivalente degli americani Grammy, in formazione completa, per accettare il prestigioso premio per un “Outstanding Contribution To Music”. Freddie non aveva molta scelta: i tabloid lo massacravano da mesi, se non si fosse presentato per qualunque motivo, avrebbero decuplicato il loro già insostenibile attacco. No, nessuna scelta, si va, tutti insieme. Il sig. Mercurio ha un vestito celeste, una camicia bianca, una cravatta bianca, blu e celeste, e una sciarpetta bianca sulle spalle, capelli molto corti, totalmente sbarbato e, a guardarlo bene, pesantemente truccato; mentre il buon Brian May accetta il premio con quel suo eccellente fare da professore a una conferenza di astrofisica, Freddie sembra distratto, guarda un punto nel vuoto. E sembra piccolo. Minuscolo.
Quel grandioso gigante, quel dio dell’Olimpo che dominava le folle, il palco e le feste, oggi sembra un uomo stanco e con la testa altrove. Saluta, dopo tutti i suoi compari, con un semplice “Thank you, good night” e per un momento, un brevissimo istante, il suo sguardo ritorna a fuoco: un centesimo di secondo in cui ha nuovamente tutti in pugno, un centesimo di secondo inafferrabile, Freddie volge immediatamente lo sguardo alla porta e sembra scappare via dal microfono. Mesi prima erano andati a ritirare il premio come miglior band degli anni ’80 in una trasmissione televisiva inglese (“Goodbye To The Eighties”), e Fred appariva forse un po’ ammaccato ma in discreta forma, nonostante i pettegolezzi che lo tormentavano sulla sua salute; con quel misto di timidezza, sorrisi e impazienza che lo caratterizzava fuori dal palco, saltellava sul posto, stringeva le mani a tutti. Ma i BRIT, cazzo, quelli avevano preoccupato davvero tutti.
Quella benedetta creatura aveva ricevuto la diagnosi di sieropositività nel 1987, a sentire le voci più accreditate, e poco dopo la malattia vera e propria era venuta fuori. E i Queen, i suoi fratelli di una vita, da banda di stronzi litigiosi che era fino a qualche anno prima gli si era stretta immediatamente attorno come solo la famiglia sa fare, nonostante qualsivoglia litigio si possa aver avuto nel passato. Freddie voleva lavorare fino alla fine e, dopo il successo corale di “The Miracle” (1989), che era un album musicalmente di rock relativamente convenzionale, Freddie voleva qualcosa di veramente Queen, che difatti arriva con Innuendo.
Come ai vecchi tempi, la title track, che con i suoi sei minuti e trentuno secondi è una delle tracce più lunghe della storia dei Queen, è un’opera estremamente complicata, con cambi di tempo, una marea di sezioni e perfino un ormai leggendario intermezzo di flamenco, improvvisato da Brian insieme a Steve Howe degli Yes su un’idea di Freddie. Un’enormità degna dei Queen degli anni ’70, che li riportò finalmente in testa alla classifica dei singoli nel Regno Unito (non succedeva da “Under Pressure”, nel 1982). L’intero album, come la traccia omonima, contiene testi immersi nella malinconia, come la psicotica I’m Going Slightly Mad, traccia sulla pazzia piena di battute nello stile Noël Coward, geniale commediografo inglese, o la conclusiva The Show Must Go On, accreditata come tutte le altre tracce alla intera band ma scritta principalmente da May. Mercury, che per ovvie ragioni doveva rimanere in salute pressoché perfetta e al quale fu proibito categoricamente di fumare, aveva la voce nella miglior forma della sua carriera e lo si può sentire proprio in quest’ultima traccia, che May non credeva potesse riuscire a cantare: “Nah, I’ll fucking do it, darling”, shot di vodka e via, una delle performance vocali più straordinarie di sempre.
“Innuendo” è un album che, nonostante sia a tratti cupo, deborda voglia di vivere, la voglia di vivere di quello straordinario performer, autore e musicista che era in fin di vita mentre lo registrava. Da non credere: ormai con AIDS conclamato non solo registrò “Innuendo”, ma immediatamente dopo disse ai suoi di prepararsi, si registrava ancora. E questa irraggiungibile, inimitabile voglia di vivere pervade ogni nota di quest’album, che sia il caldo gospel di All God’s People o la ballata These Are The Days Of Our Lives, scritta da Taylor ma evidentemente atta a parlare della situazione di Freddie (“You Can’t Turn Back The Clock / You Can’t Turn Back The Tide / Ain’t That A Shame?”) e pubblicata come singolo. Il suo video, girato in bianco e nero, è l’ultima apparizione di Freddie prima della sua morte. Stanco, emaciato ma ancora carico di quella vitalità straordinaria che lo ha caratterizzato, conclude la sua ultima apparizione sussurrando alla camera, cioè a noi, suoi umili devoti come si è devoti di un santo, “I Still Love You”. E ci troviamo qui, dopo trent’anni e sai che c’è Fred? Ti amiamo ancora anche noi.
DATA D’USCITA: 4 Febbraio 1991
ETICHETTA: Parlophone