Una cosa straordinaria dei Radiohead è come spessissimo nella loro carriera abbiano costretto la critica musicale a cercare di inseguire definizioni per inquadrarli. Ad esempio, all’uscita di “Kid A” (2000) in tanti si aspettavano un seguito al capolavoro chitarristico di tre anni prima (“Ok Computer”), parlarono di “suicidio della carriera artistica”, di “esperimento” e roba simile. Nel 1994, invece, molti si affrettarono a catalogare la band di Oxford come “one hit wonder” per quella “Creep” che sarebbe stata solo un piccolo paragrafo di un’affascinante carriera. E per The Bends, venticinque anni or sono, chi ne doveva parlare si trovò un po’ confuso: “Aspetta un minuto, ma questi non dovevano essere finiti con quel singolo lì?”.
E invece Yorke, Greenwood e soci tirano fuori un album, per la prima volta di tante, generazionale, difficilmente inquadrabile nel britpop perché troppo poco inglese, non catalogabile come grunge perché di metal, di punk e di Seattle ce ne sta dentro proprio poco… a qualche irriducibile non rimase che di chiudere gli occhi e sparare “sono i nuovi U2”, tanto questo canta col falsetto come Bono Vox, no? In realtà, se di affinità musicale dobbiamo parlare, forse l’unica plausibile è con gli R.E.M. (con i quali andarono in tour per promuovere proprio “The Bends”, aprendo un leggendario concerto catanese che i più fortunati, oggi, narrano come si narrano le gesta epiche di Ettore ed Achille), sia per la sensibilità che li accomuna, sia per l’autonomia decisionale e direzionale nel proporre al proprio pubblico sempre e sostanzialmente quel cazzo che gli pare, senza stare troppo a pensare come sarà accolto il disco di turno.
Un album eminentemente chitarristico, pieno di riff fantastici e atipici che costringono all’air guitar, nel quale Yorke domina come un titano cantando, sussurrando, in falsetto, con le urla, che è totalmente ancorato agli anni ’90 e contemporaneamente totalmente fresco; un disco che forse nella discografia radioheadiana viene considerato un episodio minore perché poco “difficile”, perché facilissimamente ascoltabile. Ma è forse proprio questa la grande forza di “The Bends”: in un momento storico nel quale, dopo la morte di Cobain e con tanta mediocrità in giro, si incominciava a parlare di morte del rock, i Radiohead tirano fuori un album rock convenzionale ma allo stesso tempo fatto di canzoni originali, che rifuggivano il “già visto, già sentito” che informava ad esempio i grandi classici dei mancuniani Oasis, altrettanto imponenti nella storia del rock anni ’90.
Pezzi come My Iron Lung o Just (nella quale Jonny Greenwood voleva “provare a mettere quanti più accordi possibili in una canzone”) non sono certo consueti, né lo sono ballate come Bullet Proof… I Wish I Was o Fake Plastic Trees (che contiene una delle tante meraviglie liriche dell’album “He used to do surgery / For girls in the 80’s / But gravity always wins”). Ma l’apice del disco arriva nel finale con Street Spirit (Fade Out), epocale, malinconica, devastante e che lascia intendere: “Se questi cinquanta minuti vi sono piaciuti, sappiate che è solo l’inizio”.
DATA D’USCITA: 13 Marzo 1995
ETICHETTA: Parlophone / Capitol