Prendiamo una penna a sfera. Potremmo scrivere di tutto: parole su parole, riflessioni, significati ed esplicite spiegazioni di ciò che ruota nella nostra testa. Spesso accade questo quando si scrive il testo di una canzone. Ma non tutti decidono di esprimersi in maniera convenzionale, non sempre. In fondo la voce è un vero e proprio strumento musicale, innato, ancestrale, quindi perché non soffermarsi semplicemente sulla bellezza degli infiniti suoni che potrebbero essere generati? Suoni mescolati insieme senza un significato etimologico chiaro. C’è chi con una preziosità rara e fuori dagli schemi decide di non seguire regole grammaticali e di lasciare spazio a interpretazione più intime e viscerali. C’è chi sceglie di accostare e articolare sillabe in forma musicale germinando stati d’animo penetranti e lontani dall’idea meccanica di creare confini già tracciati e percorsi illustrati a priori tramite parole e concetti. Empatia, questo è il termine più adatto.
In realtà potremmo essere ancora più precisi e definirlo “vonlenska”, dato che nessuno meglio dei Sigur Rós è stato capace di concretizzare quanto appena spiegato. L’emblema di tale raffigurazione è rappresentato da uno degli album più gemmei della storia non solo della band, non solo del post rock, ma della musica: Ágætis Byrjun. Ma torniamo indietro, alla genesi di tanta bellezza. Non tutti sono facilitati nell’ascesa verso la notorietà. Anche il luogo da cui provieni in alcuni casi condiziona, ostacola. Ma a questa versione semplicistica se ne accosta una di maggior peso. Infatti, il luogo in cui sei nato e cresciuto ti caratterizza. Non sarebbero i Sigur Rós se non provenissero dall’Islanda. Ricordiamo a tal proposito che ad eccezione di alcuni brani, “Ágætis Byrjun” è scritto quasi interamente in islandese, mentre le musiche sono composte con un linguaggio che non si può analizzare, un linguaggio alieno che ti travolge di soppiatto e non ti da il tempo di riflettere e soffermarti su quanto appena ascoltato.
Jónsi ha sempre ammesso ed espresso il profondo legame che ha con la sua terra ed è così trasparente e presente nei lavori della band che ogni cosa trova il suo posto nel loro pianeta in maniera perfettamente naturale. E nel 1999 erano diverse le cose da sistemare: il batterista Ágúst lascia la band per seguire una nuova direzione lavorativa e gli impegni degli altri componenti sembrano non confarsi alla realizzazione della “speranza” espressa alla pubblicazione del loro primo lavoro (“Von”, 1994). Fino a che non arrivano ben due nuovi componenti all’interno della band: il batterista Orri Páll Dýrason e il polistrumentista Kjartan Sveinsson. La formazione ora non è solo di nuovo al completo, ma si arricchisce superbamente.
Passa del tempo prima che si possa registrare, ben due anni. Due anni necessari per dar vita a una vera opera d’arte, non solo per la bellezza dei pezzi ma per l’ingegno compositivo. Quello che loro definiscono un “buon inizio” è fatto di brani riprodotti al contrario (Intro), di pezzi palindromi (Starálfur), di tracce rallentate di circa 400 volte per crearne ulteriori (Avalon). E intanto “Ágætis Byrjun” diventa colonna sonora di “Vanilla Sky”. Oro. “Il sogno lontano è nato”, si ascolta in Ágætis Byrjun: solo questo si può aggiungere. Beh, con quella penna a sfera potremmo scriverci un’infinità di cose. C’è chi invece ha deciso di utilizzarla per raffigurare un’icona nodale, associandola a un album perfetto. ll feto alieno presente sull’artwork dell’album ce lo conferma: i Sigur Rós con “Ágætis Byrjun” ci hanno confermato in definitiva di provenire da un altro pianeta.
DATA D’USCITA: 12 Giugno 1999
ETICHETTA: Fat Cat / Smekkleysa