Chiamarlo più forte non serve a nulla, tira un vento che rompe i timpani. Tom è andato a dar da mangiare alle galline, a Petaluma c’è un tempo da tregenda ed è Natale. “Tra un po’ piovono pure cani e gatti – raglia Tom verso il cielo – “anzi no, tori, mucche e topi!”, la massima americana per raccontare il temporale è figurativa e irresistibile. Kathleen, dall’ingresso della casa patronale, prova a richiamare la sua attenzione con ampi gesti, non spiegandosi come sia possibile che qualcuno voglia suo marito al telefono. Tutti sanno che per parlargli è molto più produttivo mettersi in macchina e affrontare la campagna. Kathleen ci riprova ancora stavolta usando entrambe le mani tipo megafono: nulla. Tom insiste nel suo spettacolo solista: urla, bestemmie, il vento è un’orchestra jazz tutta per sé.
L‘esistenza di Tom Waits è questa ormai: la fattoria, la vecchiaia, giusto qualche impegno musicale per tenersi ancorato alla vita produttiva. Un diavolo normalizzato inchiodato a un appezzamento di terra nella California del Nord dove non c’è nulla se non l’oceano nero e una fila interminabile di centri commerciali sullo sfondo. Il Tom di tutti i giorni veste un paio di pantaloni marroni, un giaccone fuori moda e dei guanti imbottiti per evitare che le ragadi gli sbriciolino le mani. Perché quando tira vento da quelle parti è un baccano dell’inferno. “Piovono cani, gatti, mucche e tori!”, Tom adesso ripara verso casa non prima di aver inscenato una specie di danza. Balla Tom con la leggerezza dei suoi settantaquattro anni, grugnisce, sfodera ululati per un blues fradicio di pioggia e insozzato dal fango. Ma poi, quando incrocia lo sguardo della moglie, si ricompone e le lancia un bacio accompagnato da un verso da coyote. Kathleen sospira, d’altronde lo ha sposato anche per quello.
Nel 1978, quando Tom Waits scrive la sua canzone di Natale, non è meno matto di così. Anzi matto non è l’aggettivo giusto, quello corretto è romantico. L’ultimo romantico rimasto sulla Terra. Ma il romanticismo di Waits è diverso dagli altri: sbuca dall’anima, s’attorciglia alle budella e poi si tuffa nel cuore. Nel ’78, l’anno di “Blue Valentine”, Waits è impomatato di brillantina come avrebbe fatto suo padre, veste una camicia arrotolata ai bicipiti come i playboy dell’American Graffiti, suona il jazz dei locali di New Orleans, insomma: è un ragazzo fuori tempo massimo. Ed è per tutte queste ragioni che decide di pubblicare un album di storie d’amore tutte condotte dal pianoforte. Una di queste, Christmas Card From A Hooker In Minneapolis, è un blues da club. Nel pezzo non c’è, ma se ascoltate bene, potreste sentirci in sottofondo il tintinnare di bicchieri e in superficie l’odore acre del fumo. Tanta delicatezza intorno, ma Tom ruggisce con una tenerezza terrificante, che è un ossimoro, ok. Il suo pianoforte disegna freddo, vetri appannati, malinconia e certe luci natalizie più patetiche che poetiche. E poi c’è il testo, ecco, sì, il testo che è un vero pezzo di letteratura, un racconto segnato da una specie di brutalità sentimentale. Altro ossimoro, ok.
La storia è quella di una prostituta che durante il giorno di Natale decide di scrivere una lettera. Il destinatario è Charlie, il suo ex. Lei gli annuncia grandi novità. È felice, aspetta un bambino, vive con un suonatore di trombone sulla nona strada sopra una bella libreria e soprattutto ha smesso di bere e drogarsi. Ora è un’altra persona, lo sposerà quel suonatore di trombone e si farà una famiglia. Charlie però le manca, lo ammette nella lettera. D’altronde insieme si erano divertiti un sacco facendo bisbocce qua e là. “Quando passo vicino alla stazione di rifornimento – scrive la ragazza – penso sempre a te per via di quell’odore di grasso che mi ricorda i tuoi capelli”. Ma ora conta il presente, c’è una nuova vita davanti e a quella vuole dedicarsi.
Tom Waits calca il suo inchiostro sulle parole giuste. La lettera della ragazza odora di liquore e muschio. Fuori dalle vetrate la gente carica abeti sul portapacchi e spinge regali sul retro. Nell’aria ristagna fragranza di dopobarba e lacca per capelli. È Natale ma la verità cresce lentamente come una nevicata che prende forza e che, nel finale del carteggio, non si contiene più. “Ehi, Charlie, ok, vuoi sapere la verità? Non ho un uomo, non suona il trombone, ho solo bisogno di soldi per pagare un avvocato”. La verità è che la ragazza è chiusa in un penitenziario a Minneapolis. Fuori nevica, una cascata di bianco ha cancellato le strade.
La canzone di Natale di Tom Waits, insomma, è una canzone nonostante il Natale. D’altronde è la sostanza stessa del Natale essere una cartolina in chiaroscuro. Ma Tom è un matto, anzi è un romantico. L’ultimo dei romantici. Lo è oggi mentre balla sotto la pioggia nella sua fattoria in California, lo era ieri conciato da crooner fuori tempo. E infatti, mentre tutto pare perduto, e tutto volge al peggio, fa chiudere la lettera con il più romantico dei finali.
“Ehi, Charlie, sai che c’è? Dicono che sarò libera su cauzione per il giorno di San Valentino, ci vediamo?”