Ci sono piogge e piogge. Ci sono quelle gelide, sferzate dal vento che taglia l’aria in orizzontale, ci sono quelle che alzano la terra come nei libri di Steinbeck; c’è il temporale, la pioggia sabbiosa, quella che evapora prima di raggiungere il suolo. C’è la pioggia orizzontale e la virga. Poi c’è il diluvio. Lungo i bordi di questi anni musicali, i Fontaines D.C. sono il diluvio: nuvole nere, elettrodi, odore di cemento fradicio, chitarre che scrosciano. Un impatto violento e identitario, sconosciuti e fraterni, come se ci fossero sempre stati o come se li aspettassimo da tempo. Quella pioggia che serve a pulire le strade dalla immondizia. E non è solo una metafora quella del diluvio, è ciò che è successo al Circolo Magnolia, a Milano, qualche sera fa. Un diluvio che ha preceduto la band (con gocce che rimbalzavano sulle nostre birre, annacquandole, e un cielo che non prometteva nulla di buono) ma che, una volta che i Fontaines erano pronti per le ostilità, ha smesso di colpo, perché il diluvio, semplicemente, erano loro.
Dunque è questo il tema con cui dobbiamo fare i conti: questa band è battente come pioggia, ci racconta chi siamo scavandoci da dentro, non tortura con orpelli, non è ridondante, è punk/non punk, costruisce angoli di suono senza mai essere inutilmente geometrica. È scura ma non oscura, descrive il disorientamento dell’essere rifiutati, masticati. È marziale, come i movimenti di Grian Chatten che, siamo sicuri, non gradirebbe i paragoni con Ian Curtis, (e dalle interviste abbiamo già certezza di come non sia neanche un riferimento perché il suo idolo, invece, è Shane McGowan dei Pogues), ma che, porca puttana, ce lo ricorda, quanto ce lo ricorda! Sul palco, lì, con quei gesti tesi, la rapsodia esistenziale, questi capelli normali, questa faccia normale. Ecco, sul palco del Magnolia, Grian non dice una parola in più, riempie l’atmosfera con il suo canto distonico, è disperato, vivissimo e, nonostante vesta un’orrenda t-shirt una taglia più grande e una tuta dell’Adidas così poco trend per la città della moda, è l’uomo più centrato del rock alternativo, sempre che si possa ancora chiamare così. Oggi, qui, e legato a un giovane uomo di ventisette anni con la sua band.
Detto questo, i Fontaines D.C. con “Skinty Fia” (qui la nostra recensione) ci hanno detto che non vogliono essere una band che si butta via. Non vogliono cavalcare alcuna onda. Non avrebbero iniziato un disco con un coro da chiesa, non avrebbero inserito nel novero strumenti come fisarmonica, tamburelli mescolati a sintetizzatori oltre che, naturalmente, al quadro elettrico più vicino al punk. C’è ad esempio un momento in I Love You in cui il salmodiare a perdifiato di Chatten è punteggiato dai piatti di Tom Coil, un momento in cui anche dal vivo accade qualcosa a cui non eravamo più abituati: tutti si perdono negli occhi di chi racconta la storia, provano a seguirla in quei tracciati di dolore, cercando di non farsi sfuggire neanche una goccia. Come quando è Robert Smith a prendersi la scena. Grian Chatten non è Smith ovviamente, è però definitivo come lui nel narrare il suo essere fuori contesto, fuori dal mondo. Fuori dal comfort, fuori da un sistema che rende tutti così pieni di appeal. No, Grian con i suoi D.C. è un Rent Boy, un Chatten Boy, in bilico su binari di ferrovia sbilenchi. Fuori dal sistema, almeno fino ad adesso. In un’automobile sparata chissà dove come nel videoclip di Roman Holiday che è la “Bittersweet Simphony” dei nostri giorni.
E poi l’altra sera non pensavamo che Nabokov sarebbe stata così devastante, ma d’altronde era tutto ampiamente dichiarato nel suo impianto di chitarre che precipitano nel vuoto, e nel suo testo:
Ti ho fatto un favore
Mi sono dissanguato
Bene, questo è ciò che è ora
Dolore, cielo puro
Cielo puro dopo un diluvio, per l’appunto.