Il loro ritorno discografico ha incuriosito tutti perché, il precedente “Cuckoo Boohoo” del 2004, aveva mostrato un grandissimo talento nel ricamo di un certo rock anglosassone a metà tra il folk ed il beat anni ‘60. Parliamo ovviamente degli …A Toys Orchestra, la band campana che, per questo 2007, mette al tappeto il mercato indipendente con un “Technicolor Dreams” da applausi. Il Cibicida ha recensito il disco, descrivendolo come “ambizioso e spiazzante” e come destinato a rimanere tra i migliori puntelli di quest’anno, e, per saperne di più, ha voluto intervistare la mente della band Enzo Moretto coadiuvato da Ilaria De Angelis, voce e polistrumentista. Buona lettura.
Enzo, il pianoforte è lo strumento principe in “Technicolor Dreams”. E’ stata un’inevitabile conseguenza della presenza di Dustin O’Halloran alla produzione?
Forse la conseguenza più inevitabile è frutto di una nostra precedente scelta ben precisa: il disco era stato concepito principalmente al pianoforte e abbiamo pensato che lui avrebbe saputo ben interpretare questo mood. Così è stato!
I testi di “Technicolor Dreams”, tradotti in italiano sul vostro sito web, mostrano delle notevoli capacità liriche. Perché non cantarli in italiano? Sì lo so, la tentazione di rispondere “perché no” è forte…
E’ paradossale, lo so, ma adesso ci verrebbe veramente innaturale. Sin da quando eravamo dei ragazzini… da quando abbiamo cominciato a suonare, facevamo cover in inglese dei nostri gruppi preferiti, poi man mano che abbiamo iniziato a scrivere roba nostra lo abbiamo fatto sempre in inglese. Forse il fatto di essere cresciuti negli anni ‘90 nel pieno della scena di Seattle ha influito pure sul nostro orientamento.. Ci ha in un certo senso “tenuti lontano” dal rock nostrano… è stata una forma di “infanzia musicale” e proprio non ci riesce di rinnegarla. Ma la nostra non è esterofilia fine a se stessa, ci sono un sacco di motivi per cui non cantiamo in italiano, che vanno da scelte ben precise al gusto… Siamo italiani, questo è chiaro… ma musicalmente preferiamo sentirci Europei… Così come è successo per il Belgio, la Germania, la Francia, credo che anche l’Italia deve osare a proporsi per una scena Europea… e l’inglese è la lingua universale si sa!
Qual è stata la parola d’ordine nel momento in cui avete iniziato le registrazioni di “Technicolor Dreams”? C’è stata una ricerca particolare?
La parola d’ordine è stata sicuramente “essenzialità”. Abbiamo sempre avuto la tendenza a caricare i pezzi di arrangiamenti in fase di assemblaggio, considera soprattutto che siamo in cinque, cinque teste con cinque background, non distanti ma comunque differenti, ognuno mette un po’ di suo in sala prove e spesso non è neppure facile trovare un armonia, tendiamo a ragionare sempre col “a togliere si fa sempre in tempo”, poi però purtroppo arriva il momento in cui bisogna togliere, in fase di registrazione, e a volte a malincuore ognuno di noi ha dovuto rinunciare a qualche parte a cui era diciamo affezionato. Succede però che un pezzo, una volta assemblato, sembra, per arrivare ad accontentare i capricci di ognuno dei cinque, aver in maniera involontaria acquisito un proprio personale carattere e diventa quasi un entità che vive di vita propria. Ed ecco che in registrazione si invertono i ruoli, è il pezzo che ha delle esigenze e va accontentato, ne va colta l’anima ed esaltata al massimo e questo può avvenire solo scarnificando il tutto, alleggerendola di qualsiasi superfluo che può in qualunque modo confonderla. Soprattutto poi deve venire fuori la melodia e per raggiungere l’obbiettivo ognuno ha dovuto sacrificare un po’ di suo.
L’elettronica c’è e non c’è. Compare e sparisce. Siete un po’ restii a farne usi eccessivi?
Abbiamo voluto che questo disco risultasse molto “suonato”… Di elettronica ce n’è, solo che appunto gli abbiamo dato un approccio più umano. Per noi l’elettronica è uno strumento come un altro, e come per tutti gli altri cerchiamo di capire quando è il caso di inserircela e quando invece bisogna desistere.
In alcuni episodi sembra aleggiare il simpatico fantasma del beat anni ’60. Nelle vostre vite private fate ascolti anche di quel tipo? Post scriptum: ci piace moltissimo la frase “E se la smettessimo di chiederci se è meglio Paul e John? E se ci ricordassimo pure il buon George?”.
Facciamo talmente tanti ascolti nelle nostre vite private che cento pagine non basterebbero ad elencarli, ti cito un esempio: ultimamente sto ascoltando Georges Bressens e gli Arcade Fire indistintamente… epoche e suoni diversissimi tra loro… ma che mi donano, allo stesso modo, forti emozioni… ovviamente abbiamo ascoltato moltissimo anche degli anni ’60 e ‘70… soprattutto negli ultimi tempi… Stiamo riscoprendo i grandi di quel periodo… Beatles, Bowie etc. Non che non li conoscessimo già… ma stiamo approfondendo maggiormente, con cura e curiosità rinnovata. In un certo periodo ci siamo così calati negli ascolti dei Fab Four che abbiamo quasi rivissuto la Beatles-mania! A proposito della frase in questione, nei giorni in cui stavamo componendo questa canzone si stava parlando proprio del fatto che George Harrison avesse scritto canzoni meravigliose come “I me mine” e “While my guitar gently weeps” ma fosse stato comunque un po’ lasciato in ombra rispetto alle figure di Lennon e McCartney.
In “Invisible” c’è un desiderio fortissimo di defilarsi. E’ il bisogno di pace che segna l’intero disco?
Non saprei… non sono molto bravo a spiegare i significati dei testi. Preferisco che ognuno possa vederci quello che vuole. Forse per quella canzone il significato è più malinconico e complesso di un semplice bisogno di pace… ma come appunto dicevo, mi piace l’idea che un testo possa essere aperto alle interpretazioni di chi lo ascolta.
La prima volta che ho sentito parlare di voi, è stato proprio come immaginare una fanfara di giocattoli che imbracciano gli strumenti. Dove avete preso quel nome?
L’abbiamo preso innanzitutto dal nostro modo di approcciarci con gli strumenti, in effetti ognuno di noi ne suona più di uno, ma non c’è ombra di strumentismo accademico nelle musiche, solo creazioni melodiche, si direbbe quasi che giochiamo a fare i musicisti. Inoltre ci piaceva molto accostare due termini di sensazione così diversa, uno dimesso, uno pomposo. I puntini sospensivi li abbiamo messi per stare prima negli elenchi dei gruppi in ordine alfabetico… no scherzo!!! Questo lo abbiamo notato dopo. In realtà dovrebbe dare un senso di incertezza, un po’ un “…sono sicuro, forse”.
Urtovox: pregi e difetti di un’etichetta indipendente…
Il difetto delle etichette indipendenti è che ovviamente non possono disporre di un budget pari a quello di una major. Detto questo posso affermare: “Urtovox? Per adesso solo pregi!!!”.
Da quando siete partiti nel ’98 fino ad oggi, la vostra line up è cambiata più volte. Cosa riserverà il futuro?
Al momento stiamo veramente bene, abbiamo trovato una dimensione ed un equilibrio perfetti, siamo ottimi amici oltre che membri dello stesso gruppo… speriamo veramente di rimanere sempre così come siamo.
Campani ma dai tratti anglosassoni. La territorialità conta poco per una rock band?
Veniamo da un piccolo paese della Campania dove non c’e tantissimo da fare, ci siamo da sempre dedicati alla musica… Se nasci in Inghilterra è ovviamente diverso che nascere ad Agropoli, ma per noi sono state proprio le “mancanze” del posto in cui viviamo che ci hanno spinto a crearci qualcosa.
Domanda di rito: se ti dico “Cibicida” cosa ti viene in mente?
Ricordo i nostri ultimi giorni del tour di “Cuckoo Boohoo” in Sicilia. Catania… la cucina siciliana, il vino, il pesce, la gente. Le date in Sicilia le ricordiamo sempre con grandissimo piacere, e non vediamo l’ora di tornarci… e poi mi vengono in mente un bel po’ di foto nostre sul vostro sito, con un sacco di bei commenti.
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra