La musica italiana oggi non fornisce più il ritratto della società come negli anni d’oro della partecipazione collettiva, i Sessanta. Gli artisti contemporanei sono più occupati ad aggrovigliarsi nelle faccende personali. La realtà? Solo evocata. I milanesi Amor Fou sono un’eccezione in questo senso. La band di Alessandro Raina è immersa a piene mani nelle vicende di casa nostra un po’ alla maniera dei Baustelle, proponendo un rock morbido sì ma dal retrogusto amar(eggiat)o. Il loro nuovo disco “I Moralisti” è un quadro a tinte scure dell’Italia: la chiusura delle fabbriche, la politica, il passato violento, l’evocazione di una Roma contraddittoria, il racconto di una generazione smarrita. Alessandro Raina ne ha chiacchierato con Il Cibicida.
Alessandro, l’Italia è davvero cosi piena di moralisti? E che paese è da raccontare?
Bisognerebbe accordarsi su cosa siano la morale e il moralismo oggi, per cui non mi è facile risponderti. Pasolini disse che il moralista è colui che rifiuta di essere scandalizzato e in questo senso penso che in Italia siano rimaste ben poche persone a cui si possa attribuire questo tipo di rifiuto. Se ti riferisci al titolo del disco chiarisco però che non c’è alcuna volontà di rappresentare il moralismo, anzi. Il titolo è chiaramente provocatorio.
Però sembra il collante del disco, il concept…
Non saprei, è una categoria figlia del suo tempo, mi pare. Dal nostro punto di vista un disco deve, per definizione, contenere una o più idee forti e possibilmente comprensibili per chi ascolta la musica, legge le liriche e si chiede cosa vorranno mai dirgli quelle canzoni.
Alcuni pezzi dicono che Roma è un luogo eccezionale nel bene e nel male, da Pasolini a De Pedis della banda della Magliana…
Roma è la capitale d’Italia, forse l’unica vera grande metropoli “aperta” presente in Italia. Una città che accoglie e si mostra senza convenevoli, dove il substrato popolare, l’epica, la decadenza e la bellezza si confondono di secolo in secolo.
A proposito di decadenza, il cielo che domina “I Moralisti” è continuamente plumbeo. Non c’è nessun motivo per stare allegri?
Negli anni in cui ci è toccato raccontare (e raccontarci) direi proprio di no, ed anche per questo mi deprime ed inquieta la continua invasione del mercato da parte di progetti musicali scanzonati e disimpegnati. Tuttavia se non avessimo speranza, ed alcuni anche fede, faremmo altro, altrove.
Parli al plurale rappresentando la tua generazione, quella nata nei ‘70. Scalfari una volta disse che la piena del ’68 invece di fertilizzare il terreno finì per renderlo palude. Che ne pensi?
Scalfari conosce l’arte di dire spesso cose acutissime, taglienti e sensate, e di dirle quando i giochi sono fatti, evitando il rischio della previsione che tradì tante menti progressiste figlie di quel periodo. Ti rispondo citando Tricarico. “Dormi amore, la situazione non è buona”.
Gli Amor Fou e la densità musicale. Un
aspetto su cui lavorate particolarmente?
Sì, nel senso che è l’unico modo per noi concepibile di approcciare questo tipo di musica, ormai difficilmente categorizzabile sotto una singola etichetta di genere, e in cui il grande stimolo risiede proprio nel fare proprie moltissime influenze e lezioni provenienti dal pop, dal rock, dalla new wave, dal folk e da tutta la splendida musica che amiamo ascoltare.
“Peccatori In Blue Jeans” prende spunto da un film francese degli anni ’50. Qual è il vostro rapporto con il cinema?
E’ un rapporto di amore e fruizione continua, attraverso il quale troviamo ispirazioni e motivi per comporre la nostra musica. Tutto il cinema italiano dal dopo guerra fino a Sorrentino ci ha influenzato profondamente, ma ovviamente amiamo anche altre scuole cinematografiche come quella francese.
La EMI ha incrociato la vostra strada. Che incontro è stato?
Un colpo di fulmine direi visto che una settimana dopo aver ascoltato il disco ci hanno proposto un contratto. Ovviamente poi i matrimoni vanno nutriti e sostenuti con reciproca dedizione.
Amor Fou e Casador sono i progetti che raccolgono due anime di te. Convivranno per sempre?
Presumo di sì, nel senso che ad oggi racchiudono tutto quello che voglio (e sono in grado di) dire attraverso la musica.
Cosa ti è rimasto della collaborazione con i Giardini Di Mirò e cosa pensi sia rimasto a loro?
A me è rimasto il privilegio di entrare in un mondo complesso ed affascinante passando dalla porta principale e unendomi a un gruppo fra quelli che ho amato e supportato di più, il che racchiude tutti i momenti bellissimi e non sempre facili di un’esperienza così intensa, metabolizzata in anni e anni, anche attraverso un temporaneo abbandono delle scene. Loro penso abbiano potuto riflettere dall’interno sullo stato del progetto GDM, rilevando pro e contro dell’inserimento di un “corpo estraneo” all’interno di un nucleo ormai delineato e retto da equilibri molto delicati, in cui l’aggiunta di un ulteriore elemento creativo non era (e non sarà mai) praticabile fino in fondo. In ogni caso, un bel viaggio.
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra