La morte dei Franklin Delano è stata inaspettata per il pubblico italiano, ma probabilmente inevitabile per Paolo Iocca e Marcella Riccardi. Un normale cambiamento di stagione musicale, un’evoluzione salutare, un mutamento di pelle che è stato fisiologico per il duo bolognese. Un passaggio che si è concluso con l’uscita di “Border Radio”, il primo disco di un nuovo progetto chiamato Blake/e/e/e. Ed i “nuovi” Iocca e Riccardi con questo album stupiscono tutti: imprendibili, psichedelici, eclettici. Musica di confine per confini difficilmente rintracciabili. Il Cibicida ha voluto parlare della nuova fase creativa con Paolo Iocca. Ecco l’intervista.
Paolo, nella recensione di “Border Radio”, abbiamo immaginato te e Marcella abbandonare i Franklin Delano sotto il sole desertico d’America e sfrecciare via in auto. Una fine troppo “violenta”? Perché muoiono i Franklin Delano?
Franklin Delano è stata una bella esperienza e ha seguito la sua naturale evoluzione. Diciamo che il vecchio ha voluto essere lasciato morire in pace. Quindi nessuna nostalgia. Siamo diversi, molte cose sono cambiate – soprattutto nelle nostre teste. Gli ascolti si sono diversificati, è normale. Forse è apparsa come una rottura brusca, ma sarebbe accaduto comunque. Attribuire ai Franklin Delano un album come “Border Radio” sarebbe stata un’operazione non lineare. Meglio abbandonare la zavorra quando si parte per una nuova avventura.
Quanto c’è dei Franklin nel dna dei Blake/e/e/e?
C’è sicuramente un po’ dell’amore che abbiamo provato per il folk americano. Però – e per reazione – c’è anche l’abbandono e la presa di distanza dallo stesso, e la partenza per una esplorazione che non ha più una meta precisa.
Una curiosità sul nome, da cosa deriva? Sembra una trascrizione fonetica…
Un nome non necessita di un significato preciso, ma allude perennemente a un mazzo di possibilità semantiche, tra cui di volta in volta poter scegliere. Quindi queste sono solo ipotesi nostre: è un po’ William Blake, con il suo senso di religiosità metafisica legato a filo doppio con l’arte; e un po’ una trascrizione digitale, che in qualche modo richiama alla mente – in maniera grafica – una eco. Magari l’eco nel nuovo millennio di una esigenza antica che ogni tanto va a perdersi, in mezzo alla massa di segni in cui viviamo. Ma potrebbe essere Cummings, e altro ancora…
Avete passato molto tempo a Chicago per la composizione di “Border Radio”. Quanto lo spirito di quella città è entrato nel vostro lavoro? Raccontaci la “tua” Chicago…
In realtà non è stato lì che è nato l’album. L’album è nato a Bologna. Chicago è entrata sicuramente sotto le nostre pelli prima, e anche dopo. I soggiorni lunghi a Chicago, la gente che vi abbiamo frequentato e con cui siamo in continuo contatto, ci hanno dato una boccata d’aria e un senso di libertà. Ma soprattutto siamo venuti a contatto con tanta e tale musica… non poteva non influenzarci profondamente nella visione che avevamo del suonare e dell’America.
Nel disco ci sono diversi deragliamenti nella psichedelia, ma soprattutto c’è un contrasto tra dolcezza (banjo, mandolini, acustiche) e ritmi scontrosi. Ci troviamo, appunto, di fronte a una musica di confine?
Il titolo tenta appunto di rendere il senso dell’album. Niente barriere tra stili, nessun tentativo di mediazione tra le diverse idee, e una ricerca di suoni, atmosfere, ritmi che descrivano la babele in cui viviamo e ne ricerchi un’unità più profonda. Quindi gli accostamenti tra suoni apparentemente distanti tra loro, o tra brani molto lontani per atmosfera non sono certo frutto del caso. Volevamo fare un disco che bastasse a se stesso, una “monade” che quasi non avesse bisogno dell’esterno; fuori dalle mode che si creano e si disfano in continuazione, che non creasse la compulsione usa e getta che sempre più spesso è insita nei prodotti musicali. Bisognerebbe considerare un album alla stregua di un’opera d’arte, come una scultura. Ecco, “Border Radio” è una scultura sonora, fatta con materiali di riciclo: bricolage espressionista. Ecco perché ci sono così tanti contrasti sonori. Il più accentuato, come dicevi, quello tra psichedelia e post-punk (anti-psichedelico per eccezione).
C’è un pezzo in particolare poi che pare tutto e il contrario di tutto: “Dub-Human-Ism”. Uno spiritual cantato da robot. Come nasce questa canzone?
Dub-Human-Ism è nata dall’idea di unire sonorità vocali à la Beach Boys a un contesto assolutamente opposto, inquietante. Il testo della canzone è pieno di invocazioni pseudo-bibliche paradossali, quasi nonsense (come ad esempio all’inizio: “time flies, God we’re gonna be young again, we ain’t gonna die”). L’idea era di generare una sorta di gospel deviato, che richiamasse un’idea di religiosità decontestualizzata. Poi, andando avanti nell’arrangiamento, abbiamo pensato che forse il finale poteva trasformarsi. Pian piano è subentrata l’idea di disco music, e di improvvisazione. Le due cose in fondo erano le più in antitesi possibile, quindi… perché no?
C’è un disco o un suono di riferimento a cui vi siete ispirati per questo album?
Non uno, ma molti… questo è un disco molto plurale. Siamo molto contenti di essere riusciti a miscelare una molteplicità tale in un solo album.
Tu e Marcella Riccardi. Parlaci della vostra intesa musicale, ormai perfettamente stabile…
Una delle differenze fondamentali tra i Franklin Delano e i Blake/e/e/e è proprio il cambiamento totale di dinamica nel nostro rapporto artistico. Nei Franklin Marcella era essenzialmente “l’arrangiatore”, mentre di solito i brani venivano composti, chitarra e voce, da me. Ora invece tutto si mescola, e anche tra noi, paradossalmente, non esistono più confini. Lei scrive un pezzo, io trovo degli arrangiamenti, o viceversa. Anche i testi ora arrivano da entrambi, e a volte si mescolano le parole e le frasi di entrambi in un solo testo.
Prima Vittoria Burattini, ora Egle Sommacal e naturalmente Marcella. Sembra che il tuo rapporto con i Massimo Volume sia strettissimo, quasi inevitabile…
Conosco Vittoria da prima che i Massimo Volume stessi si formassero, ed Egle da prima che entrasse a farne parte, al posto di Umberto Palazzo. Viviamo nella stessa città, è inevitabile che ci si conosca più o meno tutti, e che un giorno o l’altro, quando le circostanze lo permettono, si inizino collaborazioni.
Un’ultima domanda su Unhip Records. Un’etichetta coraggiosa…
Unhip Records rappresenta, insieme ad altre entità del panorama italiano, una conscia resistenza alla stupidità che costantemente aggredisce la musica indipendente nostrana. E’ anche grazie a realtà come Unhip Records che possiamo ancora andare fieri di quello che succede qui a livello musicale.
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra