Sono apparse di mattina presto in un giorno d’estate. Il 27 Luglio del 2019. Tre altalene rosa ideate perché penetrassero tra le sbarre che dividono El Paso, in Texas, e Ciudad Juárez, in Messico. Un’installazione shoccante come il rosa scelto per quei bracci di libertà. Succede questo nel confine. Succede questo nella frontiera. Bambini americani e messicani che si spingono da una parte e dall’altra per giocare. Ma succede questo da trent’anni anche nella musica dei Calexico. Un progetto musicale che è di per sé una dichiarazione di intenti: raccontare il terzo territorio, quello di mezzo, quello che viene ignorato e sfigurato dai muri di divisione: 1000 km di tracciante di ferro tra Messico e Stati Uniti. “Anche il Sud dell’Arizona era messicano, poi fu acquistato dagli USA per costruirvi una ferrovia, mutandone i confini. La gente però ha mantenuto quell’identità”. A parlare è Joey Burns, polistrumentista di Tucson. Uno che, insieme all’amico John Convertino, a un certo punto degli anni Novanta, decide che quell’identità di mezzo doveva essere raccontata a dispetto di ogni barriera; per questo fonda i Calexico con le sue musiche ibride, un po’ folk, un po’ blues, cumbias, mariachi, trombe e chitarre. Perché Joey e John quell’identità la sentono propria, perché a John ricorda sua madre al pianoforte che canta canzoni messicane. Agli ormai storici muri fisici però, negli ultimi due anni, si sono aggiunti quelli più volatili portati dalla pandemia. Joey e John costretti, come tutti, all’isolamento. Poi ecco il 2022 che, come un’altalena rosa, offre la possibilità di tornare a fare musica ed esibirsi dal vivo. Nasce in questo contesto El Mirador, l’undicesimo album dei Calexico (qui la nostra recensione), registrato nello studio-veranda del producer Sergio Mendoza a Tucson. Un disco di luce, di voglia di ballare, di abbracciare, toccare. Forse l’album più luminoso di Burns e Convertino. Un disco che i Calexico presenteranno in due date italiane: il 26 Aprile all’Auditorium Parco della Musica di Roma e il 27 all’Alcatraz di Milano.
Joey, John, mancavate da tre anni dall’Italia.
(John) Siamo contentissimi di tornare. L’Italia è così bella, mi chiedo spesso perché i miei nonni se ne siano andati, devono aver avuto molto coraggio a farlo. Ogni volta che la vediamo dall’aereo c’è questa vista geografica dello stivale. Poi l’attraversi in auto ed è molto varia. L’Italia del Sud, ad esempio, mi fa venire in mente le nostre case nel Sud-Ovest, con i nostri scenari segnati da nopalitos, da ocotillo, strade polverose, fiamme, sole caldo. Al centro, invece, mi ricorda la California: eucalipti, oleandri e vigneti. Su a Nord Milano è gialla, brillante, fredda.
Una descrizione bellissima che, tra l’altro, riporta al titolo del vostro nuovo album “El Mirador”, il punto di osservazione geografico. Qual è stata la scintilla che ha fatto nascere questo disco?
(John) Quando sono andato a Tucson, da El Paso, per incontrare Joey e Sergio Mendoza, loro avevano già iniziato a registrare alcune cose. Joey aveva scritto parti con la sua chitarra Harmony degli anni ’50 e stavano lavorando al jazz standard di Lola. Ecco, nell’aria c’era questa atmosfera romantica ed esotica che io amo moltissimo.
Da lì, poi, suppongo non vi siate più fermati.
(John) Esattamente. Provavamo molte cose sperimentando con la sovraincisione di parti di batteria, cosa facile con Sergio visto che è anche un batterista. Ecco, lui era lì che provava con conga e bonghi, mentre io mi inserivo con diversi ritmi sovrapposti, è stato molto divertente.
Da come racconti si avverte la vostra necessità di tornare a suonare dopo gli anni molto duri della pandemia.
(John) Sì, ma oltre che della pandemia, anche delle sconvolgenti elezioni negli Stati Uniti, con le gravi divisioni nel nostro Paese e tutte le bugie e la disinformazione dei media. Penso che volessimo davvero immergerci in un po’ di musica divertente, con dei buoni groove, e lasciarci scivolare via tutto. Alle spalle.
A questo proposito, che responsabilità ha la musica nei confronti del presente? Deve avere la missione di rappresentarlo? O addirittura cercare di cambiarlo?
(John) Penso sia giusto provare ma, alla fine, il cambiamento dipende dall’individuo. È bellissimo se una canzone, un testo o una storia possono aiutare a cambiare. È ciò a cui ambire maggiormente: fare del mondo un posto migliore.
Vorrei un attimo fare un passo indietro nel vostro percorso, visto che avete iniziato oltre trent’anni fa con un progetto molto complesso. Quando siete partiti pensavate di poter essere qui, oggi, con questa musica, queste storie… qual è il vostro bilancio?
(John) Ci sentiamo fortunati ad aver avuto un percorso così lungo. Guardando indietro però penso che, tutto sommato, abbiamo preso le cose così come sono venute, senza pensarci troppo. Ricordo il primo disco, “Spoke” (1996), fu una grande sorpresa scoprire l’accoglienza del pubblico. Da allora, passo dopo passo, i nostri fan sono stati con noi nel viaggio.
Cosa avete imparato da questa vita da musicisti?
(John) Abbiamo imparato ad assecondare le tante ore di viaggio, ma anche a tenerci fuori dai guai e sviluppare abitudini sane. Lunghe corse, la lettura di libri, stare in famiglia, curare la casa, mantenerla bella. Migliorarci come persone, insomma. Con la musica e fuori dalla musica. Per me ad esempio è molto salutare lavorare sulla mia vecchia Volkswagen del ’58, una Karmann Ghia.
Con cui attraversare il deserto, magari! Torniamo a “El Mirador”: Joey, puoi parlarmi di “Cumbia del Polvo”? Sembra proprio una dichiarazione d’amore verso la polvere del deserto. Possiamo definirla una “saudade” ma dal territorio di Calexico?
(Joey) Sì, mi piace come interpretazione! Ci sta, è una sorta di “Sonora Saudade”. Da un lato abbraccia la modernità, dall’altro tutta la polvere che ci portiamo addosso tramandata da generazioni. Questa canzone è stata una delle prime bozze a cui abbiamo lavorato in studio. Una volta messa giù, l’abbiamo inviata a Gaby Moreno per un aiuto alla voce e poi a Camilo Lara a Città del Messico per fargli aggiungere il suo trattamento e mixare. È un pezzo con un bel ritmo e un groove polveroso.
In “El Paso” invece ecco il tema della divisione USA-Messico. Tu canti: “Difficile da capire il combattere per un confine / E più difficile di trovare verità in questa terra”.
(Joey) La musica può essere connessione tra confini e oltre gli stereotipi, e il ritmo può portare le persone a ballare e da lì, forse, può ricordarci che siamo più simili di quanto si pensi.
Un concetto espresso bene anche dall’utilizzo del bilinguismo: inglese e spagnolo.
(Joey) Sì, esattamente, quest’alternanza linguistica produce ritmo e riflette esattamente ciò che siamo, la natura delle persone che stanno nella band e il luogo da cui veniamo che chiamiamo “la nostra casa musicale”.
Perdonami il collegamento forse un po’ ardito, ma in argomento di divisioni e confini, in queste settimane si sta combattendo una terribile guerra in Ucraina. Che idea vi siete fatti?
(Joey) Mi sento solo di dire che la guerra è un inferno. È devastante ciò che sta accadendo nelle aree dilaniate in tutto il mondo e soprattutto in Ucraina. La mia unica speranza è che la pace possa essere trovata e, chissà, forse la musica potrebbe aiutare nel processo di guarigione.
“El Mirador”, rispetto a un disco come, ad esempio, “The Black Light” (1998), vi mostra meno nervosi e forse più inclini alla nostalgia.
(John) Sì, sono d’accordo con te. Penso però che la nostalgia sia sempre stata lì… ok, forse più nelle mie corde che in quelle di Joey.
Ma quanto siete diversi tu e Joey? A occhi esterni sembrate molto uniti, quantomeno musicalmente.
(John) Lui credo sia più aperto a sperimentare con l’elettronica e ascoltare musica nuova, io invece amo ancora esplorare il jazz della metà del secolo scorso e la musica classica di fine 800. Anche se recentemente l’ascolto che mi ha colpito di più è quello di Ron Miles con Brian Blade alla batteria.
Quindi Joey, sei tu il più contemporaneo tra i due?
(Joey) A me piace tutto. Ogni volta che sono in macchina, sono le mie figlie a decidere cosa mettere e devo dire che apprezzo questo mix: da Lil Nas X a Prince, dai Queen a Olivia Rodrigo. Recentemente ho scoperto una band africana molto interessante, si chiamano Ibibio Sound Machine. Ecco, sono dell’idea che tutto ciò che ascoltiamo in qualche modo finisca in ciò che suoniamo, e ci aggiungo anche i suoni della natura e le frequenze cosmiche in circolazione dall’inizio dei tempi.
E invece dal punto di vista dell’amicizia con John? Cosa avete capito l’uno dell’altro in questi trent’anni?
(Joey) Ho imparato molto da John. I valori principali alla base della nostra amicizia sono la pazienza e il rispetto. Ora ascoltiamo molto di più, soprattutto da quando siamo diventati entrambi padri. Forse ci siamo addolciti un po’ e di sicuro siamo circondati da un grande gruppo di musicisti. È un gruppo molto familiare e positivo che ci aiuta a continuare in questo viaggio. Insomma, non siamo solo io e John.
Un bella fortuna avere un gruppo così.
(Joey) Sì, assolutamente. Siamo stati fortunati ad aver avuto una serie di opportunità come band in questi lunghi anni e ora sono felicissimo per essere in grado di riunirci nuovamente in tour.
A proposito del tour, salutandovi vi chiedo un’ultima cosa: cosa dobbiamo attenderci dai due concerti italiani?
(Joey) Sarà una festa. Abbiamo sette musicisti sul palco e suoneremo tutte le nuove canzoni di “El Mirador” così come vecchi pezzi del nostro repertorio. Sarà molto divertente. Non vediamo l’ora di vedervi tutti in Italia, è davvero un sogno essere in tour e riunirsi con il vostro pubblico.
E noi vi attendiamo. In questa Italia piena di confini da esplorare, non senza contraddizioni e muri però.