Luglio 2008: Lo scorso aprile Cesare Basile è partito con il tour di locali per presentare il disco nuovo di zecca “Storia di Caino”. Un’uscita importante per il cantautore catanese a due anni di distanza dal successo di “Hellequin Song” e prima con la nuova label toscana Urtovox, “etichetta più piccola ma molto motivata”. A partire dal titolo, c’è molto riferimento biblico in questo suo nuovo album e musicalmente c’è un ulteriore avvicinamento verso il blues d’oltreoceano. Basile ha raccontato il suo lavoro ai lettori de Il Cibicida.
Domanda: Cesare, quello che racconti di Caino è il massimo atto d’amore verso Dio?
Cesare: Non credo che il gesto di Caino sia un atto d’ amore, è piuttosto il grido disperato di qualcuno che da un amore si sente escluso, è come gridare in faccia al padre che anche lui esiste, è la rabbia di chi vede la propria offerta d’ amore lasciata a marcire insieme agli altri doni.
Domanda: Ritorni al tema biblico. Il Libro Sacro sembra rappresentare per te una fonte inesauribile…
Cesare: La Bibbia è in qualche modo la matrice di tutte le storie. Una fonte inesauribile di archetipi, tracce, immagini e sentimenti. A ben vedere non c’è nessuna storia raccontata dall’uomo che non abbia un precedente biblico. La Bibbia è il passato ed il futuro di un mondo condannato a ripetersi.
Domanda: In “19 Marzo” canti: “non sapevo pregare, ma esigo la fede”. E’ la tua visione della religione non dogmatica?
Cesare: “19 Marzo” è una canzone di redenzione, non necessariamente in senso religioso. Quella frase vuole dire essenzialmente che quello che sono stato non è quello che sarò per sempre.
Domanda: Hai definito “Storia di Caino” un album sull’assenza. Ascoltandolo però appare soprattutto l’album più d’amore della tua carriera…
Cesare: Ti rispondo in maniera lapidaria. L’ amore è quasi sempre assenza e spesso l’ assenza preserva l’amore.
Domanda: C’è un andamento molto blues e decisamente meno “tirato” rispetto al passato. Con un’immagine: Basile che si lascia definitivamente alle spalle Berlino e si dirige verso gli Stati Uniti…
Cesare: L’America è sempre stata lì e Berlino me l’ha fatta scoprire, le due facce si sovrappongono. Ed il blues è sempre tutto intorno.
Domanda: Da Mescal ad Urtovox. Un passaggio obbligato, ma non sofferto?
Cesare: La Mescal è stata un’esperienza importantissima. Mi hanno aiutato a crescere e a fare le mie cose sempre meglio. Adesso comincia una nuova avventura con un’ etichetta più piccola ma molto motivata. Non si soffre per queste cose, non quando qualcuno crede in quello che fai.
Domanda: “Il fiato corto di Milano” è una canzone molto figurativa. Come definiresti, in definitiva, il tuo soggiorno milanese?
Cesare: Milano l’ho usata come metafora per raccontare la miseria di un intero paese… mi ritrovo nei suoi angoli nascosti e spesso ne condivido il fiato marcio. “Il fiato marcio di Milano e di un terrone”, appunto.
Domanda: Robert Fisher presta la sua voce in un brano. Com’è nata la collaborazione?
Cesare: Con Robert siamo stati in tour insieme per venti giorni. Abbiamo scoperto di essere molto simili e scrivere una canzone a quattro mani ci è sembrato il modo più giusto per sancire una profonda amicizia.
Domanda: Ancora John Parish ai “fornelli”, Marcello Sorge alla batteria, Marcello Caudullo alle chitarre e Giorgia Poli ai cori. E’ la squadra perfetta?
Cesare: C’erano anche Lorenzo Corti, Luca Recchia, Rodrigo D’ Erasmo, Michela Manfroi, Vera Di Lecce… c’è sempre un sacco di gente nei miei dischi altrimenti non mi diverto.
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra