Novembre 2006: I Franklin Delano sono tornati a casa dopo il lungo tour americano. Ma c’è da scommetterci, ci ritorneranno presto negli USA, perché, meglio di altri, è un paese che ha saputo cogliere l’essenza, l’ambizione musicale e le esigenze espressive del gruppo emiliano. Proprio di recente Paolo Iocca ed i suoi Franklin Delano hanno licenziato il loro terzo disco “Come Home”, e così Il Cibicida ha voluto chiacchierare virtualmente con il cantante e chitarrista riguardo gli spunti dell’ultima fatica in studio, ma non solo, anche di mercato, States e recente passato.
Domanda: Leggevo da qualche parte che il nome Franklin Delano l’avete scelto dopo la visione di un documentario sulla Seconda Guerra Mondiale. Ma, a parte l’uso della lingua inglese (centrale anche nel vostro website), cosa vi lega, mentalmente, agli Stati Uniti?
Paolo: La passione per la variegata tradizione di quel paese, che qui in Italia, chi più chi meno, ha influenzato tutti, da Ligabue agli OvO, da Fred Buscaglione a Vinicio Capossela. Noi tentiamo solo di esplorarla più a fondo, di documentarci, di amarla da vicino, di evitarne i luoghi comuni e di dribblarne i tentativi di colonialismo culturale che qui possiamo (utilizzando una comoda metonimia) riassumere in Mtv Italia, ma che si impone agli stessi statunitensi per molteplici vie. Per cui il nome Franklin Delano è un invito a curiosare magari nella storia americana, e nei recessi più profondi della cultura di quel paese, che, ricordo, è ibridata in modo sconvolgente soprattutto a livello musicale, tra gighe irlandesi e ritmi africani, in mezzo ci passa di tutto.
Domanda: Raccontaci qualche emozione del recente tour americano…
Paolo: E’ stato bello scoprire New York, ad esempio, cosa che nel primo tour non avevamo avuto modo di fare per problemi logistici e di scarsa preparazione alla situazione. Questa volta ce la siamo girata parecchio, e abbiamo scoperto quanto sia una città “semiotica”, quanto ogni centimetro quadrato della sua superficie, e della superficie dei suoi muri e pareti, sia un coacervo semantico/simbolico da rimanerne attoniti. Fissi mezz’ora un all’apparenza banalissimo muro di Brooklyn, e resta ancora qualcosa da decifrare, tale è la veemenza e l’affollamento di “tracce” culturali. Un’altra cosa bellissima è stata tornare a Pittsburgh, nello stesso luogo dove avevamo suonato l’anno prima, davanti a pochi spettatori che però ci avevano osannato. Questa volta la sala era quasi piena e si vede che si erano sparsi la voce, perché tutti attendevano la nostra performance. Ce ne sarebbero centinaia di cose da raccontare…
Domanda: “Come Home” è l’esigenza di tornare all’ovile dopo il tanto peregrinare?
Paolo: No, è l’esigenza di approdare in un punto più preciso nel corso della ricerca di senso di questo nostro progetto. In tal modo questo album è una sorta di “chiusura del cerchio”. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro, e si esplorerà il mondo “a partire” da questo punto fermo, che in sostanza è proprio il confronto vero (non evitato attraverso l’alibi della sperimentazione) con le tradizioni musicali che ci hanno sempre affascinato. Se vuoi c’era anche un senso di sfida. Sicuramente la consapevolezza che non siamo la serie B della musica rock.
Domanda: Quanto si fatica a conquistare il mercato italiano per una band dalla dimensione indie come voi?
Paolo: A parte che è virtualmente impossibile imporsi in Italia se non canti in italiano. In ogni caso a noi non interessa il mercato, noi non siamo una band “commerciale”. Non vogliamo “vendere” nulla. Semmai il contrario, noi offriamo un “servizio” culturale, che è quello di non banalizzare l’America musicale, di non ridurla a quello che Mtv ci propina notte e giorno. Così come non si deve banalizzare nulla, e ogni discorso di senso comune andrebbe scavato per farne emergere aspetti inconsueti e interessanti. Così noi abbiamo voluto delirare la tradizione americana, cercare di scovare sotto la semplice melodia di una strofa, l’elemento che ne faccia risaltare l’unicità e il sostrato di ricerca sonora. A noi il mercato non interessa, ci interessa donare alle persone il nostro punto di vista (molteplice) sulla musica. Se interessa, se piace, se ai nostri concerti viene più gente e compra i nostri dischi, allora avremo raggiunto l’obbiettivo. Ma la musica noi la facciamo prima di tutto per noi stessi.
Domanda: Quali sono stati gli equilibri del gruppo, dal punto di vista compositivo, per questo “Come Home”?
Paolo: Questo disco è nato “strano”. In poco tempo, sull’onda emotiva del nostro primo tour americano, ho scritto una serie di brani. Poi Marcella ci ha lavorato attentamente, cesellando gli arrangiamenti. Poi sono arrivati gli altri, con i loro personalissimi contributi, poi Brian ha rimescolato le carte sul finale, rendendo il prodotto quello che è ora.
Domanda: Con “Come Home” siete arrivati al vostro terzo disco in studio. Affinità e divergenze tra il passato e oggi? E cosa vuol dire registrare un disco all’anno?
Paolo: Vuol dire farsi un gran culo! Abbiamo corso tanto, e ora, soprattutto io e Marcella, vogliamo rallentare le cadenze, che erano diventate inumane. Lavorare ancora meglio, con ancora più attenzione. Cercando di non farci ricattare dalla musica e dalle sue parabole promozionali. Rispetto al passato pensiamo di aver fatto tesoro di parecchie esperienze “uniche” e di aver capito tante cose dai nostri errori passati. Ma questa è un’opinione, e lascia il tempo che trova. Poiché è impossibile capire e tracciare un bilancio “oggettivo” del lavoro svolto finora. Siamo in perenne evoluzione, e le differenze tra i tre dischi lo dimostrano pienamente, direi…
Domanda: Chi è Scalise?
Paolo: E’ il proprietario dello stabile dove sono ubicati i Clava Studios. Un vecchietto che abbiamo conosciuto, e con cui, sorprendentemente, abbiamo parlato in italiano. Nel brano omonimo è un alibi per giustificare questa sensazione di non essere così distanti dagli States, culturalmente e geograficamente.
Domanda: Per i Franklin Delano hanno parlato di Slint, di Wilco, di Velvet Underground. In una intervista ti abbiamo sentito citare Johnny Cash. Ma qual’è il dna musicale dei Franklin Delano?
Paolo: Mah… il dna musicale dei Franklin Delano è vasto e in continua evoluzione. Impossibile tracciarne una mappatura. Anche perché siamo in tanti, e se consideri che abbiamo avuto vari cambi di formazione, impossibile pensare alle derive e agli approdi di storie di ascolti e passioni di tutti. Ed è giusto così, dico io, visto che il mondo è bello perché è vario, allora anche la nostra piccola “bellezza” è dovuta alla varietà di strati stilistici che si incontra e si scontra nella nostra musica. In più considera che quando un disco esce “ufficialmente”, un gruppo come il nostro è già altrove, ed è difficile seguirne le tracce in tempo reale. Anche questo è giusto, e rappresenta il nostro piccolo “fattore sorpresa”.
Domanda: Pensi che l’organico dei Franklin Delano troverà una definitiva composizione o sarà soggetto sempre a nuove “entrate”?
Paolo: Questo non possiamo saperlo. Finché qualcuno non si trova perfettamente a proprio agio nella band e nei suoi ritmi e valori, meglio che si fermi il tempo giusto per coglierne i frutti e non subirne gli effetti collaterali. Nel caso di Vittoria, c’è stato ad esempio un tempo tecnico necessario perché le cose si stabilizzassero nel giusto modo, per cui alla fine ora è tornata al suo posto dietro i tamburi. Preferiamo tenere le cose fluide, e lasciare che la naturalezza con cui le cose si trasformano faccia il suo corso e decida per noi le nostre line-up.
Domanda: Quanto ti ha dato la musica e quanto ti ha levato?
Paolo: Ahè… che domandona! Come qualsiasi altra scelta consapevole o inconsapevole per chiunque. Comunque non è detto che la musica abbia l’ultima parola su di me.
Domanda: Qual è il disco che ti ha convinto a dire “cavolo, voglio fare musica!”?
Paolo: Sai che non lo so quando è successo la prima volta? Ero molto piccolo. Forse fu una raccolta dei Deep Purple. Poi è ricapitato tante altre volte. Questa origine mitica del disco che ti cambia la vita e ti fa decidere di suonare nel mio caso è oggetto di un vero è proprio culto personale, per cui periodicamente c’è una scoperta musicale nuova che mi “folgora sulla via di Damasco” e mi dona nuova linfa, anche se a volte mi costringe a resettare e sconvolgere tutti i piani. Ecco perché non si sa mai cosa aspettarsi da me…
Domanda: Domanda di rito: se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Paolo: Un formichiere…
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra