Giugno 2006: Dodici lunghi anni trascorsi come voce e chitarra dei Karate, band fra le più importanti del panorama indie statunitense. E poi una lunghissima serie di progetti paralleli con altri amici e colleghi ed una brillante carriera solista. Tutto questo è Geoff Farina. Il Cibicida è orgoglioso di presentarvi la versione integrale dell’intervista rivolta via email ad uno dei personaggi di spicco dell’underground made in USA. A voi, Geoff Farina.
Domanda: Cominciamo dalla fine, parlaci un po’ del progetto italo-americano Ardecore, come è nato?
Geoff: E’ stata una idea che abbiamo avuto in Germania, ad un concerto dei Karate insieme a Zu e Blind Loving Power. Dopo il concerto Giampaolo (Felici, ndr) ha iniziato a cantare vecchie canzoni, ed è stato grandioso, così è nata l’idea. Non è stata davvero una idea totalmente mia.
Domanda: Hai sempre avuto un ottimo rapporto con l’Italia, hai suonato qui tantissime volte e inciso addirittura un live. Come ti ha influenzato il nostro paese?
Geoff: Mi diverto veramente lì da voi, ed ho amici intimi e parenti in Italia. Passo un paio di mesi all’anno nel vostro paese, così fa praticamente sempre parte delle mie vacanze.
Domanda: Vengono prima le parole o la musica? Cosa nasce prima?
Geoff: Dipende dalla canzone, ma in linea di massima c’è sempre una idea della musica all’inizio.
Domanda: Karate. The Secret Stars. Carriera solista. In quale di queste esperienze sei riuscito ad esprimerti meglio?
Geoff: Ognuna di queste esperienze è stata grandiosa. Certo, i Karate hanno rappresentato la maggior parte della mia vita per un lunghissimo periodo, ma tutti e tre i progetti hanno avuto una grande influenza su di me.
Domanda: Hai sempre fatto un tipo di musica che si addice decisamente ai club, ai piccoli locali. Ma hai avuto anche modo di suonare davanti a grandi platee. Qual è la differenza principale per un musicista come te?
Geoff: Mi piacciono molto i club e i piccoli locali. E’ tutto molto più intimo, e penso oltretutto che la mia musica suoni meglio in questi posti. Anche i grandi festival però sono divertenti, ma decisamente più impersonali.
Domanda: Parlaci un po’ del progetto artistico con Jodi Buonanno… musica, pittura e cos’altro? Avete pensato a qualche modo per unire le diverse arti?
Geoff: Penso che le nostre idee creative siano simili, anche se lavoriamo con strumenti diversi. Ho sempre pensato che l’arte non ha molto a che fare con il mezzo attraverso il quale la si esprime, e credo che le idee possano semplicemente lavorare attraverso gli strumenti. Quando qualcuno ha una forte idea estetica la può realizzare in molti modi, in musica o in pittura.
Domanda: In dodici anni di carriera con i Karate come si è evoluto il suono della band? Avete attraversato le più svariate sonorità, dall’indie-rock al post-punk passando per le venature blues…
Geoff: Io credo che quando suoni per tanto tempo le cose si debbano necessariamente evolvere; cominci così a vedere cosa funziona e cosa no. E’ un lungo periodo di distillazione, e il suono è sempre al limite del cambiamento. In ogni album abbiamo provato nuove cose, e la musica è risultata ogni volta fresca, che è poi il motivo per cui la band è durata tanto.
Domanda: Negli ultimi episodi dei Karate si respirava come una stanchezza compositiva. Veniva a mancare la verve di album come “The bed is in the ocean”. Faceva parte di una ricerca stilistica o era il tentativo di non rimanere negli stessi binari degli esordi?
Geoff: Penso che abbiamo semplicemente messo da parte l’aggressività di prima. Mi piace quel disco e so che la gente lo considera uno dei nostri album migliori, ma è molto aggressivo, un album pieno di rabbia, e credo che in diverse parti suoni in maniera giovane ed immatura, anche se alla fine ha in assoluto maggiore energia rispetto a tutti gli altri nostri album.
Domanda: I Karate fanno definitivamente parte del passato o c’è speranza di rivedervi insieme in un futuro prossimo? Sai, in Italia siete da sempre molto apprezzati…
Geoff: Non so proprio, ma non abbiamo in progetto di suonare ancora insieme. Forse un giorno cambieremo idea.
Domanda: Qualcuno un giorno disse che quando si prova a teorizzare il jazz, il jazz muore. Sei d’accordo? Prova a darci una tua personalissima definizione di jazz…
Geoff: Non conosco la risposta, ma penso sia importante essere capaci di articolare cosa si sta facendo, così, in questo modo, una parte della teoria consiste in quello che trasmette la tua musica dal vivo. Penso che articolare quello che stai cercando di fare in qualche modo lo chiarisca e lo focalizzi. Cos’è il jazz? Non so, ma credo sia un genere se ha la sua definizione sotto la lettera “J”. Altrimenti lo immagino come un modo o un processo per fare musica.
Domanda: Quali sono gli album della tua vita?
Geoff: Ce ne sono tanti. Ultimamente mi sto godendo “Chelsea Girl” di Nico, e sto anche ascoltando parecchio Gary Davis e Blind Blake.
Domanda: Se potessi dirmi un nome, un solo nome, di un artista col quale ti piacerebbe lavorare in futuro, chi mi diresti?
Geoff: Mi piacerebbe suonare la chitarra elettrica in canzoni scritte da qualcun’altro, forse qualcuno come Mike Watt o Tom Waits.
Domanda: Gli Stati Uniti sono ancora quella fucina di realtà musicali genuine che cominciano dai bar e dai garage? O forse oggi si balza direttamente alle tv musicali?
Geoff: Non so. Ci sono così tante band ovunque, e così tante band che suonano in maniera più o meno simili ai vecchi gruppi. Mi domando dove suonano!
Domanda: Domanda di rito: se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Geoff: Il pranzo!
* Supporto a cura di Riccardo Marra
* Foto d’archivio
A cura di Emanuele Brunetto