Sono trascorsi più di sette mesi dall’uscita di “In fondo al blu”, ma la luce commovente che viene fuori da quel disco ancora non accenna a indebolirsi. La redazione de Il Cibicida, così, ha deciso di andare a bussare alla porta telematica di Giulio Casale e di provare, insieme a lui, ad affrescare a tinte pastello una chiacchierata che includesse le tematiche del suo primo disco da solista, ma anche qualche ricordo della passata (ma non terminata) stagione degli Estra.
Partiamo dalla fine: cosa è successo dentro di te per scrivere un lavoro come “In fondo al blu”, un disco cantautoriale, intimo e che lascia da parte gli inni e la rabbia degli Estra?
Diciamo che ho recuperato dei vestiti che con gli Estra non indossavo ed era giusto così. Ho ricominciato ad arpeggiare la chitarra e le melodie, un po’ antiche e un po’ mai sentite, sono arrivate. Poi con Alessandro Linzitto abbiamo sentito archi, strumenti a corda, piccoli disturbi di trasmissione, rumore del presente. Lui è un compositore, musica contemporanea, cioè spesso solo frequenze, noise intonato: un onore averlo al mio fianco, o viceversa, è uguale.
Ricollegandosi con la prima domanda: riconosci dentro di te la dicotomia tra Giulio e “Estremo”?
Non vivo “In fondo al blu” quale disco molto estremo… La veste trae volutamente in inganno. Continuo a cantare il disastro, non certo per celebrarlo, ma per spingerlo oltre, fuori di qui. La realtà cosiddetta civile dell’uomo è quasi in toto inaccettabile, mi pare, per chi abbia un cuore in ascolto, per chi sia, almeno un poco, ancora individuo. Questi due dischi solistici non portano in calce quel soprannome (che non mi scelsi) perché come dice il poeta “son degno del mio nome”, il qual nome a sua volta non potei scegliere… Il prossimo lavoro potrei firmarlo semplicemente “Estremo”, sarebbe uguale, o quasi.
“In fondo al blu” è un album di dimensione letteraria. Lo dice il tour teatrale di “Illusi di esistenza”, lo dimostrano certe liriche tutte da leggere, si percepisce dalla tua propensione per una scrittura sempre più “cromatica” ed espressiva. Che rapporto hai con la scrittura? E che tipo di evoluzioni ha subito col tempo?
Ho sempre scritto molto, dai tempi del liceo, scrivevo racconti, poesie e molte lettere, agli innamorati, forse certe attese bellissime accanto alla cassetta della posta sono la sola cosa che può redimere un’adoloscenza in tutto e per tutto al limite della tollerabilità. Poi per un po’ ho scritto solo testi per le canzoni degli Estra, oltre che le musiche, mi sembrava importante non disperdermi. È “Sullo Zero” che cambia tutto, da questo punto di vista, e oggi ho molto “materiale” (orrore!) nei cassetti milanesi, ma non ho fregole di pubblicazione, non più, mai più, amo gli inediti, mica i miei, li rispetto più d’ogni altra cosa, se si eccettuano i boschi e gli animali tutti. La scrittura, se fuori dalla narrazione, è seconda solo alla musica. Ma niente classifiche, basta con lo sport.
Le ferite de “L’uomo coi tagli” si sono mai rimarginate?
E come potrebbero? L’uomo è allo sbando, non ha un pensiero, nemmeno una luce che lo guidi o meglio che lo attiri, soltanto denaro e vanagloria, e bada che non sono cattolico, inserirsi è già una rinuncia al proprio personale splendore primigenio… Fino a che un bimbo non incontra il sistema scolastico-educativo è una meraviglia, poi è già tardi… È come per Amnesty International o il Partito Radicale: smetteranno di esserci quando vivremo in un altro mondo, ma l’ipotesi non mi pare dietro l’angolo…
Pavese, Drake e il suicidio. Stare in fondo ad una piscina è un po’ come suicidarsi da un mondo non condiviso?
Non ho mai pensato a questo. Non coltivo alcuna forma di disperazione, piuttosto vado in apnea, la com-passione, il patire insieme, ma insieme, il sim-patizzare, sorrido anche molto (non me lo perdonano, sai?), l’acqua è l’orizzonte e l’origine insieme, è un abbandono, certo, ma vitale, insisto, vitale, e se è vita veramente non s’interrompe, nemmeno con la morte apparente.
“Il signor G” incontrava nei suoi sogni cantati Gesù Cristo e Marx, tu invece?
Beh, “Marina Elisa” è stata scritta in sogno, “All I Want To Be” pure, forse dovrei scrivere solo ciò che sogno, ma il timore di tradirli, questi sogni, mi fa gentile oltremodo con essi. Tu citi “Libertà Obbligatoria”, bene. Potrei rispondere con “Polli d’allevamento”, cioè noi siamo tali, senza la minima consapevolezza però. I sogni non son desideri, sono pensieri più liberi, più leggeri, finalmente il cervello non ha pieno controllo, ma è in funzione pure lui, non del tutto altri siamo noi.
“Vorrei vedere voi, traditi dagli eroi” canti in “Nordest Cowboys”. Quanta disillusione e quanta speranza c’è nel Giulio Casale di oggi?
Se disillusione significa smettere questa mortifera illusione d’esistenza che ci buttano addosso ogni giorno, dal primo giorno, mi basta questa parola, ché la seconda vi è già compresa. La speranza è già nel mio corpo, nel suo recalcitrare, nel suo intossicarsi: esso ha bisogno d’altro, me lo urla persino. Il vegetarianesimo è il minimo, bisognerebbe non mangiare il loro linguaggio, non mangiare alcuna televisione, per un po’ dico, non mangiare sondaggi, false contrapposizioni, non mangiare potere, nessuna forma di, non mangiare. Anoressia non obbligatoria, comunque illuminante.
Un aggettivo per ogni album degli Estra…
“Metamorfosi”: nucleare, “Alterazioni”: atrabiliare, “Nordest Cowboys”: occidentale, “Tunnel Supermarket”: liberale, “A conficcarsi in carne d’amore”: esiziale.
Una volta definisti Signor Jones “l’urlo senza voce della tua generazione”. Pensi che il Signor Jones delle generazioni di oggi avrebbe la forza/voglia anche solo d’urlare?
Da sempre c’è chi s’immerge e chi non s’immerge (chissà da quale parte ci s’immerda di meno, si chiedeva Montale): coloro i quali, per una serie di casi apparentemente fortuiti, riescono pure oggi a non immerdarsi con il reality, la moda, l’obbligo di consumare telefonia e computer, ma semplicemente restano nell’osservazione e nella rilettura d’ogni evento, costoro potranno urlare, non di Munch, più forte e meglio di noi. Immagino siano molti, io ne conosco forse tre, vengono ai concerti.
Fantastica un tavolo immaginario con te, Hemingway e Tom Waits… chi supererebbe gli altri in bicchieri di whiskey e romanticismo?
Hemingway non so se riesce a venire… Sei molto gentile negli accostamenti… Non mi paragono proprio. Coltivo i miei vizi e il romanticismo non lo è, sia chiaro. Inutile dire che dovrei fumare meno, dunque non sia detto. E grazie per quella “e” nel whiskey, che vuol dire “irlandese”…
Cos’hai sotto la puntina del tuo giradischi al momento?
Jacques Brel, Endrigo, Johnny Cash, gli Editors, i Calla, Nine Horses, Antony, Rufus Wainwright… Roba forte, eh?
“Sullo Zero” è un reading emozionante, è la tua vita in pillole. Il senso di perdita, le tue radici e quella voglia di scrollarti di dosso il peso del vuoto. Ad oggi quanto sei riuscito a stringere il cerchio dei ricordi?
I ricordi pesano, curvano le mie povere spalle, ma non credo nelle biografie (il tempo non esiste, questo film è già stato girato) e meno che mai nelle auto-biografie… Scrivo solo ciò che mi pare abbia un senso pressochè universale, sennò chissenefrega, è diario privato: oggi ho comprato il miele e il latte di riso, capirai. Non l’ho perdonato davvero a John Lennon, figuriamoci a me. So già come va a finire, per questo parlo adesso…
Parlami un po’ della tua produzione di “Oltre lo specchio” di Marco Notari. Che disco è?
Un disco rock, giovane, giustamente ingenuo, naive, lo apprezzo proprio per questo. Marco ha ancora molto da dire, se non perde contatto con la crepa interiore da cui gli sgorgano parole e melodie. Ha anche un buon gruppo di musicisti vicino. Io ho cercato di dargli il suono che stava cercando, questo lo so fare, oramai. Non ho marchi di fabbrica, da produttore mi metto in viaggio con l’artista, voglio vedere dove si va, per di là.
Cos’hai in programma per il futuro prossimo?
Troppe cose, quasi tutte non mi riusciranno. Dovremo parlare di una cosa alla volta. Lo faremo?
Domanda di rito: se ti dico “Cibicida” cosa ti viene in mente?
La grande abbuffata!