Novembre 2010: I belgi Goose c’hanno messo davvero poco ad entrare nel variegato mondo della dance alternativa, e l’hanno fatto dalla porta principale, ponendosi in “competizione” con band dotate di ben più esperienza e di una corposa discografia. Con un solo album all’attivo, quel “Bring It On” del 2006 che ha convinto in pieno tanto la critica specializzata quanto – soprattutto – il pubblico delle dancefloor, il quartetto belga ha presentato il proprio mix di beat elettronici, campionamenti, venature noise e space con un occhio al mondo delle soundtrack. Rappresentando fin da subito una delle migliori realtà dell’intera scena. A pochi giorni dal loro secondo lavoro “Synrire” (sempre la !K7, etichetta simbolo dell’elettronica europea), Il Cibicida ha intervistato Mickael Karkousse, frontman della band.
Domanda: Venite dal Belgio, ma il vostro sound è molto “british”. In che modo le vostre origini influenzano la composizione dei brani?
Mickael: Grazie per il complimento! Dobbiamo ammettere che la nostra infanzia ci ispira molto, siamo cresciuti negli anni ’80 e ’90 e pensiamo che nelle nostre canzoni ciò si senta. In parte si percepisce l’insegnamento di grandi maestri come Moroder, Carpenter e Vangelis, di cui sentivamo le colonne sonore in televisione. Invece, un album che ancora oggi ascoltiamo è “Speak & Spell” dei Depeche Mode. C’ha influenzato in diversi modi e, pur non essendone stati sempre consapevoli, ci siamo resi conto di aver utilizzato un sacco dei sintetizzatori analogici che usavano loro. Abbiamo anche cercato di registrare alla vecchia maniera, utilizzando il computer e la sua tecnologia proprio come una tapemachine, diciamo come niente di più di un dispositivo per la registrazione. Negli anni ’90, poi, il New Beat e l’EBM erano davvero di moda in Belgio, erano dovunque, trovavano le loro origini proprio nel nostro Paese ed erano anche un ottimo prodotto da esportare. C’erano tutte queste piccole etichette discografiche che spuntavano dal terreno come se nulla fosse: Bonzai Records e USA Import erano riuscite a creare una scena completamente nuova. E tutto ciò ha avuto senza dubbio un grande impatto su di noi.
Domanda: Molti critici e giornalisti vi definiscono una band “indie”. Ma cosa significa per voi “indie” nel 2010?
Mickael: “Indie” non significa più niente da quando band come Sonic Youth, Nirvana e Oasis cominciarono a vendere milioni di dischi e a partecipare a grandi festival. Musicalmente la parola “indie” è morta. Ci sono molte collaborazioni fra artisti e un continuo crossover fra generi, quindi è molto difficile oggi dire “cosa” è “cosa”. Ma il genere “indie”, nel senso di “indipendente”, sta tornando. Il lungo monopolio delle major è finito, gli artisti hanno cominciato a prendere il controllo delle proprie carriere e a creare piattaforme per sé stessi. Basta vedere Boys Noize, DFA, Ed Banger o Kitsunè. Tutto ciò che hanno fatto negli ultimi anni non è stato creato da strategie di marketing, loro sono la prova che la buona musica sopravviverà e ci potrà portare ovunque vorremo.
Domanda: Qual è il vostro approccio al lavoro in studio di registrazione?
Mickael: Non c’è una vera e propria formula. Le nostre canzoni iniziano per lo più da un groove o da una jam session negli studi di casa nostra. Poi per le registrazioni effettive siamo andati in uno studio proprio al centro di Bruxelles (Jet Studio, ndr), un posto pieno di fonti d’ispirazione per lavorare, dov’è passata tanta storia, da Edith Piaf ai Rolling Stones. Ultimamente, inoltre, stiamo utilizzando alcune applicazioni musicali per iPhone che hanno tutte le funzioni necessarie per realizzare una buona pista direttamente dal palmo della mano. E ciò risulta molto utile quando si è in viaggio.
Domanda: Avete mai pensato di abbandonare per un attimo l’elettronica e proporvi in veste acustica?
Mickael: Non ci vediamo proprio a mettere in piedi un set acustico. Ma abbiamo realizzato le versioni acustiche di molte delle nostre canzoni. Crediamo che durante il processo di scrittura/produzione sia bene spogliare i brani fino all’essenziale perché, quando ci si comincia a perdere in suoni e strutture complesse, è sempre bene ascoltare come suonano le canzoni su una semplice chitarra acustica. Funziona veramente, perché in questo modo non c’è verso di rimanere ingannati: è una buona canzone o non lo è, semplicemente. E’ un trucco che consigliamo a tutti.
Domanda: I vostri brani sono stati remixati da parecchi altri artisti. Cosa cercate in una collaborazione?
Mickael: Per una casa discografica è fondamentale “colpire”, sotto diversi punti di vista. Ma il nostro interesse è rivolto solo alla buona musica, vogliamo sentire ciò che gli altri producer possono fare con una nostra traccia, dandone la loro interpretazione. Si potrebbe paragonare il tutto al teatro: un’opera già esistente, ma portata in scena da diversi registi. L’opera così non sarà mai noiosa, ogni performance sarà differente e ogni regista potrà aggiungere il suo tocco personale.
Domanda: Negli ultimi anni molte band hanno abbandonato le major. Cosa ne pensate della loro situazione odierna?
Mickael: Tutto dipende dalle band e dai loro desideri. A noi piace contenere la nostra creatività per poi liberarla nel momento in cui vogliamo farlo. E’ bello controllare la propria musica ed essere gli artefici della strada che si è scelta di seguire. Finora ha funzionato tutto molto bene per noi, perché abbiamo trovato una casa discografica che è totalmente sulla nostra lunghezza d’onda. La loro forza è il modo in cui si approcciano alle band. Ognuna ha un background o necessità diverse, e loro si adattano alla perfezione a ciò. La chiave è anche la velocità nel lavorare, cosa che per una major può risultare davvero difficile. E’ importante poter pubblicare un brano da un giorno all’altro, senza avere qualcuno in mezzo che ti dice se è la cosa giusta da fare o meno. E, come tutti sanno, l’artista ha sempre ragione!
Domanda: C’è una canzone che “rubereste” per farla vostra?
Mickael: La Marsigliese, l’inno nazionale francese. Non sappiamo perché nessuno, finora, l’abbia mai remixata!
Domanda: Per le giovani band internet ha rappresentato una finestra per mettere in mostra il proprio lavoro. In che modo ha aiutato voi, invece?
Mickael: E’ semplicemente il modo migliore per scoprire nuova musica. Un mezzo veloce per stare in contatto con gli amici anche quando siamo on the road. E’ anche un efficace sistema per aggiornare i fan su cosa stiamo facendo o per fargli ascoltare un assaggio di un brano a cui stiamo lavorando. Ma internet non è sempre un aiuto! In studio di registrazione, ad esempio, abbiamo dovuto bannare tutti i laptop dalla control room, perché ad un certo punto ognuno di noi guardava video su YouTube, chattava o controllava la posta elettronica. Si finiva per essere al passo con tutto ciò che accadeva fuori, ma non con la musica e il calendario di lavoro. E quindi abbiamo introdotto la regola “niente internet in studio”.
* Foto d’archivio
A cura di Emanuele Brunetto