Una nuova manciata di date per Il Teatro degli Orrori. Una primavera tra i palchi italiani per far detonare ancora di più l’ultimo disco a firma Capovilla & Co, quell’omonimo che ha spiazzato un po’ tutti per l’approccio inaspettatamente politico e diretto. Pierpaolo Capovilla è in forma, non si ferma mai. A inizio anno ha pure messo anima e cuore nel side project Buñuel. «Ogni disco nuovo mi dà la sensazione di debuttare nuovamente nella scena» racconta, con la bramosia di un autore affamato e di chi dopo tre anni di silenzio non ha perso neanche un elettrone della scarica adrenalinica degli esordi. E la prima domanda che gli rivolgo nella nostra chiacchierata, infatti, è immediata e senza giri di parole…
…come diavolo fai?
È una questione di attitudine, ma è anche un fatto “sentimentale”: rimettersi in gioco implica sempre un certo stato d’ansia prestazionale.
Quindi non temevate i tre anni dall’ultimo disco del Teatro.
Certo è che avevamo una gran voglia di fare un disco rock tout court, senza fronzoli, diretto e virulento. Non so se ci siamo riusciti fino in fondo, ma almeno ci abbiamo provato. Altroché!
Ma come funziona un vostro ritorno? Voglio dire, ci sei tu che scrivi alcuni testi, poi alzi il telefono e dici “che ci mettiamo sotto?” o è tutto al contrario?
Io arrivo sempre per “ultimo”, nel senso che la band compone i pezzi e, canzone per canzone, me li invia. Questa volta ho scritto testi decisamente più “diretti”, con un’attenzione critica verso la società italiana più presente che in passato.
Parafrasando, vi siete tolti la maschera. Non è più tempo di girare intorno alle cose?
Ho cercato un vocabolario più “urbano”, più vicino alla lingua parlata, meno metaforico e più semplice, disincantato, a volte anche sgradevole. Viviamo in un momento storico tristemente drammatico. Disinteresse e indifferenza diffuse almeno quanto il qualunquismo, stanno ridisegnando l’agire politico e la vita sociale del Paese, nel segno di un conservatorismo egoista e miope, ignorante e inconsapevole. Come dicevi tu prima, c’è poco di che girarci intorno.
Mi perdonerai la scarsa originalità, ma il dibattito è sempre lo stesso: è giusto che la musica (si) faccia politica?
Non vedo alternative. Non per noi. Non per me. Fermo restando che quasi tutte le canzoni de Il Teatro degli Orrori altro non sono che canzoni d’amore, amore dietro al quale si cela la società, con tutto quel che ne consegue.
E la società italiana non esce per nulla bene nel vostro disco. In “Lavorare stanca” il refrain è “il Paese non cambia”. Una cosa che vi fa più male o che vi deprime?
Ma non è il refrain, è un inciso. Il refrain dice “sarebbe fantastico ritrovarti in capo al mondo, e nel tuo modo di vedere le cose, sentirmi a casa mia”. Come vedi, anche questa è una canzone d’amore, di speranza, e, perché no, di lotta. Il paese non cambia per colpa nostra, che ce ne freghiamo. L’Italia è nelle grinfie di un ceto politico inadeguato e corrotto, delle lobbies e della criminalità organizzata, e noi tutti, chi più chi meno, siamo indifferenti alla gravità della situazione: non ne siamo affatto sorpresi, e lasciamo che il Paese naufraghi non si sa dove. Ecco, ciò che trovo davvero deprimente è quest’assenza di direzione che ha preso la nostra società, questo smarrimento. Nessuno crede più in niente e in questa disillusione emerge il vuoto dei nostri giorni. Che noia!
Parlavi di smarrimento, in “Genova” racconti lo scempio del 2001. Si può dire che da quel giorno il Paese è cambiato definitivamente? O tutto era già stato compromesso durante gli anni di piombo e delle stragi di Stato?
I fatti di Genova rappresentano un “inedito” nella storia repubblicana. Non si erano mai viste le forze dell’ordine comportarsi così, mettendo in atto pratiche brutali e fasciste in modo tanto spudorato. Il messaggio fu tremendo, e lasciò il segno: protestate pure, d’ora in poi lo farete a vostro rischio e pericolo. In quei giorni furono sospesi i diritti democratici, e fu tacitamente decretato lo stato d’eccezione nella città di Genova. Non vorrei sembrarti “cospirazionista”, ma secondo me fu un esperimento militare. Né più né meno.
Proviamo a parlare di musica. C’è questa traccia di tastiera di Kole Laca che rende i pezzi meno “sporchi” e più spaziali. È un po’ un omaggio a certe sonorità anni ’80?
Wow! Perché no? Credo che la presenza di Kole alle tastiere doni un tono più moderno e più contemporaneo al nostro suono, oserei dire anche più “europeo”. E in questo senso mi piace pensare alla new wave inglese degli anni ottanta, che fu una stagione musicalmente molto feconda.
Poi però in “Slint” citate un gruppo molto minimale. Come nasce questo tributo e cosa “rubereste” alla loro musica?
“Spiderland”, degli Slint, è un disco che appartiene al nostro percorso artistico e culturale, direi all’unanimità! Nella canzone abbiamo cercato di riprodurre quel suono, quel procedere dolce e drammatico, amorevole e disperato delle chitarre e delle narrazioni, che in qualche modo appartiene anche a Il Teatro degli Orrori. È un gruppo eterno, perché è cruciale; portò un’innovazione profonda e duratura nel rock contemporaneo e lo fece quasi in punta di piedi. La gentilezza del loro suono era pari soltanto alla violenza dei climax. Da riscoprire. E il nostro pezzo spero sia degno della “celebrazione” che volevamo fare di questa band ineguagliabile, alla quale dobbiamo molto.
Oggi siete ancora innamorati della musica come nei primi giorni della vostra carriera? Nonostante la situazione difficile del vostro “settore”, intendo.
Sì.
Pierpaolo, grazie del tuo tempo. L’appuntamento è con il vostro tour che è già ripreso a Febbraio e proseguirà fino a fine Aprile. Ultima cosa: la gente vi dice più spesso “non mollate!” o “è tutto una merda”? E voi cosa gli rispondete?
Al “non mollate” generalmente rispondo “certo che non mollo, cos’altro potrei fare?”, al “è una merda” che non c’è mai fine al peggio.