Ci incontriamo poco prima delle 21.00, poco prima che l’evento abbia inizio. Evento, sì: non un semplice concerto. Sulle locandine è giustamente scritto “Festival della Solitudine, Efestiade”. 11 novembre 2015: Matt Elliott e Josh T. Pearson, due tra i songwriter più intensi e seminali della loro generazione, stanno per esibirsi senza amplificazione nella splendida cornice del Palazzo Biscari di Catania, davanti a circa duecento spettatori attoniti, increduli, silenziosi, scalpitanti. Quando Josh fa il suo ingresso nel backstage, alla vista delle splendide camere settecentesche non riesce a trattenere un: «Seriously?!». Stessa reazione, probabilmente, avranno avuto i presenti all’annuncio della performance. Stessa reazione, poco ma sicuro, avranno avuto al termine della stessa. Di tanta meraviglia, Il Cibicida ha deciso di raccogliere la parola dei due cantautori in una doppia intervista condotta singolarmente, ma legata a un filo comune, quasi speculare. Per narrarvi la calma prima della solitudine; la calma prima della bellezza.
PARTE SECONDA: JOSH T. PEARSON
«I hope to live more than a couple records»
Josh, sappiamo molto del tuo passato in Texas: della tua infanzia, di tuo padre, degli anni trascorsi nell’ombra a lavorare come inserviente e muratore. Ma non c’è molto in giro riguardo al tuo presente. Dove vivi adesso, com’è cambiata la tua vita dopo “Last Of The Country Gentlemen”?
Prima di tutto, riguardo al mio passato: è tutto falso, quello non ero io (ride, ndr). Ho vissuto in Texas negli ultimi tre anni, se non ricordo male sono tornato laggiù alla fine del 2012, a Dicembre. Fatta eccezione per un paio di mesi a Los Angeles, sono stato in mezzo ai boschi, in una piccola città di trecento anime, una comunità di contadini tra Dallas e Houston. Mi sono torturato, ho scritto e gettato via ciò che avevo scritto, scritto e gettato via ciò che avevo scritto: prevalentemente ho fatto questo per due anni e mezzo, prima di trasferirmi in una grande città ed esperire il mondo il più possibile. A quanto pare andrò definitivamente a Los Angeles a Gennaio, negli ultimi sette anni non sono mai rimasto in pianta stabile negli States: ho fatto avanti e indietro con l’Europa per scoprire cose nuove, sognare cose nuove. Adesso vorrei tornare nel mio paese e vedere un po’ cosa succede.
Ci sono voluti dieci anni per ultimare “Last Of The Country Gentlemen”, che personalmente ritengo un capolavoro assoluto. Pensi ce ne vorranno altri dieci per pubblicare un seguito?
Beh, Roma non è stata costruita in un giorno. Onestamente, non ne ho idea: questo che viene sarà il quinto anno senza pubblicazioni, ma non è un fatto legato alla scrittura. Come ti ho detto, non faccio altro che scrivere e gettare via nuovi pezzi, sento che gli ultimi in ordine di tempo verranno fuori prima o poi, ma penso di avere bisogno di mettere radici, di una vita più regolare prima. Sono più vecchio adesso, devo lasciarmi alle spalle delle cose che appartengono al mio passato. Se tutto dovesse andare per il verso giusto, spero di essere più rapido e non pubblicare una volta ogni dieci anni. Mi auguro che qualcosa salti fuori l’anno prossimo, lavoro a un paio di progetti da due anni, roba da crisi di mezza età. Spero di vivere più a lungo di un paio di dischi, ma davvero: non so cosa accadrà. Non lo dico per essere misterioso, è che davvero non ne ho idea. Un sacco di gente incide un disco l’anno e ci mette dentro solo un paio di buoni pezzi, ma non è una cosa che mi attrae, non è una cosa che voglio fare. Anche se spero davvero qualcosa si muova l’anno prossimo.
Che ci dici di questo progetto gospel revival con Calvin (Le Baron, che siede poco distante da lui, ndr), The Two Witnesses Gospel Singers? È unicamente un progetto live oppure no?
Questa è proprio una di quelle cose che vorrei fare il prossimo anno, se ci riesco: cantare canzoni che vengono dal passato e canzoni che parlano del futuro, delle nuove tecnologie che si infiltrano nelle nostre vite e diventano parte di noi, trasformandoci in un’unica, grande bestia. Dovrei davvero fare uscire qualcosa al più presto, perché temo che alcuni brani possano perdere di significato se lascio passare ancora del tempo. Come artista mi piace essere in anticipo, non in ritardo con un messaggio. Sono vecchi inni e nuovi inni che canterò assieme a un amico che ha il mio stesso background. Le nostre voci si amalgamano molto bene insieme, se riesco a fare tutto quello che devo fare per tempo dovrebbe uscire l’anno prossimo.
Sei stato in Sicilia una sola volta, per Ypsigrock Festival nel 2011. In quell’occasione ricordo un pubblico abbastanza disattento e rumoroso, probabilmente perché la tua musica necessita una dimensione più intima, più raccolta. Tu cosa pensi, ti piace suonare ai festival?
Suoni i tuoi pezzi e pensi che tutto vada per il verso sbagliato, poi incontri qualcuno che dopo il concerto ti ringrazia, ti dice che si è commosso e va bene così. In quel caso in particolare ricordo che dopo suonarono i Pere Ubu e furono fantastici, ma in generale è bello incontrare qualcuno anni e anni dopo per un concerto più piccolo, come te, che mi dice: sai, ero lì quel giorno e sono riuscito ad ascoltarti nonostante ci fosse casino, sono andato oltre. Per un artista è un buon esercizio di disciplina tentare di mantenere il flusso, dentro la propria testa, anche se attorno a te succede di tutto. Naturalmente non è una cosa mi piace fare, anzi mi scoccia molto, ogni volta penso: è l’ultima volta che faccio una cosa simile. Ma poi ti pagano e ti senti subito meglio, e allora pensi: beh, forse lo farò ancora (ride, ndr). Comunque ricordo che le persone lì erano eccezionali, dolcissime. Nel corso di queste ultime date che abbiamo fatto in Italia, mi sono accorto che qualcosa è cambiato, sta cambiando. Nessuno parlava durante i concerti, nessuno faceva rumore: sono stati più rumorosi in Svizzera, ti assicuro. Sento nell’aria che qualcosa si sta muovendo, le città sono più pulite, la gente sta andando avanti, probabilmente anche grazie alla tecnologia, che è qualcosa che non si può più evitare e che ti porta a perdere in parte le vecchie tradizioni, le abitudini locali, ti spinge verso un unico, grande mondo centralizzato. Beh, vedremo stasera come andrà. (Si guarda attorno, sistema il cappello da cowboy in testa, ndr) Credo che questo sia il posto più bello in cui abbia suonato, a parte la mia camera da letto. Sai, quando suono in una vecchia città faccio sempre la stessa battuta: dico che in America abbiamo edifici vecchi quasi cent’anni. Guarda, ho comprato in Italia questa custodia per l’iPhone e questa sciarpa con la bandiera americana (me le mostra entrambe, ndr). C’è scritto “Made in Italy”, probabilmente l’avranno fatta da qualche parte in Cina e poi ci avranno piazzato sopra l’etichetta per venderla a un prezzo più alto. Dio benedica l’America.
Ultima domanda, che ho rivolto anche a Matt. È trascorso quasi un anno dalla morte di Nick Talbot, Gravenhurst, e ancora non ne sono state rese note le cause. Come riesce un cantautore ad affacciarsi così spesso sul dolore e mantenere, nonostante tutto, un equilibrio?
Tutto ciò che riguarda la creatività, l’energia, ha in qualche modo a che vedere con la sofferenza. Se ho preso in mano la chitarra quando avevo dodici anni è stato perché non ne potevo fare a meno, non potevo vivere senza. La vita non sarebbe valsa la pena senza musica. È la natura catartica della bestia, tirare fuori qualcosa dal suo sistema e farne una confessione. In ogni caso è più difficile suonare dal vivo che scrivere. Scrivere ti fa male a causa delle parole, tirare fuori quelle stesse parole davanti alla gente ti dà enormi benefici, i demoni si allontanano. C’è una canzone che ho suonato per la prima volta durante gli ultimi show e adesso mi sento molto meglio. Ci sono voluti sei anni e mezzo per finirla, si chiama “Still Born To Rock”. Davvero non so spiegarti quanto vada meglio adesso che è la fuori, adesso che è fuori da me stesso.