Lee stringe tra le mani un libro di Allen Ginsberg, la raccolta di poesie “La caduta dell’America”. Poco prima aveva postato sui social un’immagine completamente nera a solidarizzare con il movimento Black Lives Matter. Lee ha lasciato il suo loft a Manhattan, si è rifugiato in una cascina isolata in campagna, un po’ per mettersi al riparo dal virus, un po’ per trovare pace con se stesso. «Sto completando alcuni progetti di scrittura e poi disegno e leggo più di quanto non riesca normalmente» – la sua è una pacatezza strana, quasi fatalistica. «Possiedo una macchina da cucire, ho confezionato delle mascherine e ora voglio cimentarmi con un paio di pantaloni. Uso la bicicletta, aiuta l’umore, è un esercizio abbastanza meditativo. Ecco la mia quarantena». Un caos calmo si potrebbe definire quello di Lee Ranaldo, 64 anni, epocale chitarrista dei Sonic Youth. Lee che cuce pantaloni in cascina mentre fuori l’America cade, è un’immagine straniante. Ma lui non è più quello di una volta. La band non esiste più. Ora è un uomo più riflessivo, un uomo della sua età. Dunque vive questa nuova caduta dell’America – stritolata dal coronavirus, umiliata dalla violenza razziale – come una pagina da leggere da lontano. Il 2020 per lui era iniziato pure bene con la pubblicazione del nuovo disco “Name Of North End Women”, scritto a quattro mani con il musicista catalano Raül Refree e uscito il 21 Febbraio (data del primo caso di virus in Italia). Ma poi lo stop ha fermato tutto e ha frenato il lancio di un album per cui aveva lavorato molto. Un album bellissimo, pieno di atmosfere e sperimentazione.
Lee, non ci voleva tutto questo. Il disco era in rampa di lancio. Pensi che potrà avere due vite? Quella del prima e quella del dopo coronavirus?
Eh, non so risponderti. Eravamo così contenti dell’uscita! Ora non vediamo l’ora di supportarlo di nuovo e farlo ascoltare dal vivo a molte persone ma, sì, hai ragione, è stato una delle vittime di questi tempi. Soprattutto perché poteva dare molto, vista la sua anima lungimirante.
Lungimirante, dici. In effetti il titolo evoca un elenco di nomi femminili della toponomastica di Manitoba, Canada. In Italia il movimento femminista lotta da anni perché un maggior numero di strade siano intitolate alle donne. È sempre una storia di minoranze, no? Ed è la battaglia che si combatte in queste ore negli States.
Mi sento vicino al movimento femminista. C’è così tanto sconvolgimento oggi e su così tanti fronti. La storia è sessista, razzista, scritta dai vincitori e dai potenti. È importante capire ciò che va cambiato e svelare i lati nascosti di ogni cosa, ad esempio le storie di abusi contro le native nel North End di Winnipeg. Ti confesso però che, la scelta del titolo, in questo caso è stata più semplice: mi chiedevo chi fossero Ellen, Dagmar e Gertie, cosa fosse successo a Lydia, Kate e Ingrid, cosa ci fosse di speciale in Juno e Harriet. Una fascinazione più che un atto politico.
Fascinazione è una bella parola. L’atto creativo dell’album ne contiene tanta, basti pensare all’uso di vecchi registratori a nastro per cavarne un suono artigianale.
Sì, eravamo interessati a miscelare suoni e osservarne i risultati. Abbiamo lavorato sia con macchine digitali dal suono pulito, sia con parti in acustico: dai gamelan (orchestra di strumenti indonesiani come metallofoni, xilofoni, gong, flauti e tamburi, ndr) alla batteria e le chitarre. Poi abbiamo aggiunto altri suoni analogici, ad esempio quello di un vecchio registratore a cassette, pieno di fischi, ed elementi “varispeed” (aumento o decremento di tempo e tono, funzione di alcuni registratori, ndr). Insomma, è un disco di combinazioni. Vedi ad esempio la title track: ecco, lì abbiamo suonato in presa diretta strumenti gamelan che negli anni ’90 con i Sonic Youth avevamo portato dall’Indonesia, successivamente abbiamo aggiunto il suono di cassette a basso costo di concerti di gamelan registrati. Insomma, con Raül abbiamo costantemente cercato la sorpresa. Non ci interessava il “previsto”.
Non c’è nulla di “previsto”, in effetti, nell’uso delle chitarre. Voglio dire, tu sei uno dei chitarristi americani più importanti (i Sonic Youth hanno cambiato la chitarra rock), Refree ha scritto pagine interessanti di “guitarra flamenca”. Ma in questo disco la chitarra non c’è e, se c’è, è nascosta.
Abbiamo trattato la chitarra come qualsiasi altro elemento di questo album e l’abbiamo usata solo quando necessario, il nostro focus erano alcune idee di composizione in particolare legate a voce e testi. Ti confido che, fino a quando non avevamo finito di registrare, non ci siamo resi conto se ci fossero poche o tante chitarre. Certo, sapevamo che non sarebbe stato un disco rock, anche perché molte di queste canzoni non hanno avuto origine dalla chitarra.
Ed è strano sentirlo dire a te, ti si immagina sempre con la chitarra in mano, “colpa” dei Sonic Youth e di quanto di grandioso avete fatto per il noise. Oggi paradossalmente ti senti un musicista più libero di prima?
Libero è una parola scivolosa! Sono molto orgoglioso dell’eredità dei Sonic Youth e sono molto felice però di essermi dedicato ad altre cose per gran parte dell’ultimo decennio. La vita è un’evoluzione e il cambiamento è buono.
Ok, il vaso Sonic Youth è scoperchiato. Ho visto che in queste settimane avete diffuso del materiale raro sui canali del gruppo. Nostalgia?
È una cosa che amiamo: rendere disponibile il nostro vasto archivio. È una pratica che coltiviamo e che non abbiamo mai smesso di curare. Che si tratti di registrazioni audio o video, poster, volantini, cartoline, fan-art non importa. Questo periodo di “pausa planetaria” ci ha offerto l’occasione di mettere a disposizione alcuni concerti degni di nota da diversi periodi del gruppo.
Che poi è il concetto del “riaprire i cassetti”. Molti di noi lo hanno fatto in questa quarantena: riaprire scatole solitamente chiuse. A te è capitato concretamente?
Certo! Dopo le prime settimane ho installato uno scanner e ho messo mano a vecchi negativi, molti dei primi tempi dei Sonic Youth, roba di trentacinque o più anni fa! Ho rivisto da dove siamo venuti, dove siamo stati. È stato grandioso. Ho anche disegnato un bel po’ in questi giorni, acquerelli soprattutto. Ho ritrovato mie vecchie opere d’arte che mi hanno riportato ai tempi di quando eravamo giovani studenti d’arte. Però non è nostalgia la mia, a volte ricordare da dove vieni ti offre una finestra su dove sei adesso e aiuta a proiettarti dove potresti voler essere tra dieci anni.
Ok, la tua non è nostalgia, la mia invece sì. Scusa l’episodio personale, ma nel Luglio del 2002 avete suonato con i Sonic Youth nella mia città, Catania. Io ero lì con i miei amici e la sensazione era: abbiamo bisogno di voi, la nostra città ha bisogno di voi. Abbiamo bisogno di queste chitarre, di questa energia. Voglio dire, ci pensi mai a quanto i Sonic Youth manchino terribilmente alla scena rock?
Non lo so. Forse allo stesso modo in cui mancano i Velvet Underground, i Television, Sandy Denny o una qualsiasi delle leggende del rock. Io penso che il pubblico dei Sonic Youth sia stato fortunato ad averci per trent’anni. Una vita molto più lunga, ad esempio, delle band che ti ho citato prima.
Non insisto, però un’ultima domanda sull’argomento permettimi di fartela: giorni fa hai postato una foto di un’aiuola con alcuni papaveri rossi ben distanziati e poi il commento ironico “social distancing”. Lo ammetto, ho pensato ai Sonic Youth.
Ahahah, no, no, semplicemente avevo in mente dei fiori, forse per via della primavera. I fiori sono una mia passione, ho trascorso il mio tempo in casa a disegnare fiori recisi, per lo più morti o morenti. È un’immagine poetica, ma credimi non mi è passato per la testa di associarla ai Sonic Youth. Sento spesso Thurston, Kim, Steve, Jim, Mark e i nostri numerosi collaboratori. Con Steve abbiamo suonato insieme e anche con Thurston. Sono sicuro che i nostri percorsi si incroceranno ancora e ancora in futuro.
Sul web circola una maglietta che scimmiotta la copertina di “Goo”. Sopra l’illustrazione di Reymond Pettibon, però, c’è la scritta “Covid Youth”. Pensi che questo periodo lascerà delle cicatrici sui più giovani?
Stiamo vivendo un momento storico che avrà un impatto su tutti, non solo sui giovani. Per quanto riguarda il virus non credo che sarà un caso isolato, temo sarà la guerra che dovremo combattere in questo secolo. Certo, forse i giovani vivono tutto questo con più disperazione. Il pianeta, d’altra parte, sarà loro per molto più tempo rispetto a noi.
Tornando a “Name Of North End Women”, com’è stato lavorare con Raül e quali sono le qualità che stimate a vicenda?
Raül è un super talentuoso, sempre energico con idee buone e nuove, aperto alla sperimentazione. Porta ritmi e voci stilistiche che sono al di fuori dei miei normali riferimenti, e penso che in qualche modo io faccia lo stesso per lui. E poi si è sempre detto entusiasta della mia voce.
Vorrei chiudere quest’intervista chiedendoti della tua città, New York. Ne parli spesso, è un po’ un tuo emblema. Ecco, nel pezzo “Words Out Of The Haze” avverto una citazione ai Suicide, grandi rappresentati del suono della Grande Mela. Sbaglio? E come sta New York? Che fase sta vivendo?
Sono contento se senti i Suicide in quel pezzo, sono stati un punto di riferimento e continuano a essere un’influenza importante. Di New York che dirti, resta una città in costante evoluzione. Non sono uno di quelli che rimpiangono i vecchi tempi, ad esempio quelli del CBGB o di Max, della libreria Peace Eye o della New York degli anni ’20 o anni ’60. Certo, sì, dobbiamo celebrare e ricordare quelle cose, ma credo che la gente si trasferisca a New York perché è una città che cambia sempre e con qualcosa di nuovo da mostrare ogni volta.
Anche in campagna non si sta male.
Infatti, è bello stare fuori al sole tra campi verdi e isolarsi nella natura.