Gennaio 2010: Le ultime notizie che lo riguardano, Marco Parente le comunica attraverso il suo sito personale. Nella homepage c’è Marco seduto con una enorme scarpa Converse al posto della testa. Lì scrive: “io sono una pubblicazione vivente”. Che vuol dire? Vuol dire che Parente ha fatto un passo in avanti. Ha detto addio ai concetti di supporto/prodotto, di distribuzione, di feticci. Lui, in carne ed ossa, è il prodotto della sua arte, con la sua faccia. La nuova fase del nuovo Parente oggi si chiama “Il Diavolaccio”, uno spettacolo tra teatro e musica. Scopriamo di che si tratta…
Domanda: Marco, parlaci de Il Diavolaccio…
Marco: “Il Diavolaccio”, del quale ho curato la regia, il soggetto e le musiche (tutte inedite) è il mio tentativo di assentarmi dal piccolo teatrino della musica “alternativa” italiana, che peraltro non mi ha mai realmente accettato e che io per primo non ho mai legittimato. Ho debuttato a Modena a Luglio e poi ho fatto due tappe ad Ancona in Novembre. Chi è Il Diavolaccio? E’ colui che nei secoli ha accumulato una ricca collezione di anime ed ha potuto godere del diritto al gioco, “quel momento grandioso di invidiabili regole e sacro abbandono”. Complici di questo sacro gioco: il suono, il movimento, la luce e gli oggetti calzanti.
Domanda: Per quanto riguarda invece un nuovo disco, a che punto sei?
Marco: Ho scritto molte canzoni in questi due anni, ma solo negli ultimi tempi ho iniziato a registrare: in solitudine col solo prezioso ausilio di Asso Stefana, nel suo studio di Nave (BS). Per quanto riguarda il mood di queste nuove canzoni, l’unica cosa che mi sento di dire è che sono sempre più intenzionato a scrivere dei piccoli “classici”… di me stesso.
Domanda: I due episodi di “Neve Ridens” ormai risalgono a tre anni fa. Quei dischi ti hanno provato un po’ dal punto di vista mentale?
Marco: Beh! Avere troppe idee in testa e volerle esprimere tutte è un po’ come sostare su una linea esistenziale di confine molto sottile. Da una parte sai che potrebbe essere facile smarrirsi, dall’altra sei consapevole che quello è il momento giusto per portare a compimento cose che forse, nel futuro, non sarai mai più in grado di realizzare. Albert Camus in un paragrafo de “Il mito di Sisifo” descrive molto bene questa condizione.
Domanda: Ti abbiamo visto con I Proiettili Buoni. Ci racconti come nasce quel progetto e che tipo di futuro può riservare all’interno della tua carriera?
Marco: I Proiettili Buoni nascono inconsapevolmente intorno al ’99/2000, quando Paolo Benvegnù lascia gli Scisma e viene a Firenze. Entrambi siamo in un momento della vita abbastanza confuso e ci ritroviamo a condividere questo smarrimento in modo creativo. Con Gionni e Andrea stavo già lavorando da tempo, per cui ben presto il cerchio si chiude e iniziamo a registrare molte canzoni (destinate al mio disco “Trasparente”), alcune delle quali sono rimaste nel cassetto per quasi dieci anni, fino alla reunion-consapevole che ha ridato vita e giustizia a noi e soprattutto a quelle canzoni. Per quanto riguarda il futuro, credo che I Proiettili Buoni ricopriranno sempre quell’aspetto del gioco che spesso tendiamo a smarrire. E per ogni volta che quest’esigenza tornerà a farsi sentire, I Proiettili Buoni continueranno a esistere… nonostante i lunghi silenzi e letarghi.
Domanda: Con Paolo Benvegnù c’è un’intesa perfetta, quasi tra comico e spalla. Qual è l’aspetto umano e quello artistico che preferisci in lui?
Marco: Quello umano è la sua resistenza fisica e morale, quello artistico il suo grande senso della melodia.
Domanda: In comune avete sicuramente la condizione di musicisti indipendenti. Come la vivi la consapevolezza che ormai i dischi vendono poco per via del file sharing? Sei anche tu rassegnato a fare centinaia di tappe?
Marco: Questo è un problema che tocca solo gli artisti che vendono molto e i loro discografici, ma quello che nessuno dice è che chi ha davvero talento e buon gusto non subisce danni, se non minimi, dallo sharing. Io personalmente sto aspettando il grande crollo di questo sistema economico agli sgoccioli, che ha sempre investito solo e solamente sulla mediocrità. Perché di questo si tratta e non di altro. L’unico comune denominatore tra lo stato e il popolo dell’arte è la mediocrità.
Domanda: In questo contesto così strano per il mercato potrebbe avere senso un nuovo CPI? Di musica ce n’è tanta, di band grazie al web ne escono molte, i canali di promozione e creazione sono svariati…
Marco: Mi spiace, ma ciò che ho appena detto vale anche per un nuovo ipotetico CPI (e non per i CSI), non basta essere un buon artista per essere anche un buon imprenditore artistico.
Domanda: Parafrasando il tuo MySpace, “Who the fuck è Marco Parente?”, come ti racconteresti in breve a un ascoltatore straniero che non conosce la storia del rock italiano?
Marco: Sono già stato diverse volte all’estero e ti assicuro che ho molte più difficoltà a farmi comprendere da chi in teoria parla la mia stessa lingua.
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra