Home INTERVISTE Matt Elliott – La calma prima della solitudine (Parte Prima)

Matt Elliott – La calma prima della solitudine (Parte Prima)

Ci incontriamo poco prima delle 21.00, poco prima che l’evento abbia inizio. Evento, sì: non un semplice concerto. Sulle locandine è giustamente scritto “Festival della Solitudine, Efestiade”. 11 Novembre 2015: Matt Elliott e Josh T. Pearson, due tra i songwriter più intensi e seminali della loro generazione, stanno per esibirsi senza amplificazione nella splendida cornice del Palazzo Biscari di Catania, davanti a circa duecento spettatori attoniti, increduli, silenziosi, scalpitanti. Quando Josh fa il suo ingresso nel backstage, alla vista delle splendide camere settecentesche non riesce a trattenere un: «Seriously?!». Stessa reazione, probabilmente, avranno avuto i presenti all’annuncio della performance. Stessa reazione, poco ma sicuro, avranno avuto al termine della stessa. Di tanta meraviglia, Il Cibicida ha deciso di raccogliere la parola dei due cantautori in una doppia intervista condotta singolarmente, ma legata a un filo comune, quasi speculare. Per narrarvi la calma prima della solitudine; la calma prima della bellezza.

PARTE SECONDA: JOSH T. PEARSON

PARTE PRIMA: MATT ELLIOTT
«Go up Etna and just scream your head off»

mattelliottintervistaMatt, torniamo indietro di qualche anno. Tu sei inglese, ma vivi in Francia. Cosa ti ha portato lì, com’è cambiata la tua vita?
Sono stati parecchi motivi. All’epoca avevo una relazione con una donna francese, avevamo dei bambini. Allo stesso tempo divenne anche troppo caro vivere in Inghilterra facendo il musicista. Naturalmente non è una grande colpa non guadagnare abbastanza denaro, o almeno non abbastanza da vivere in Inghilterra, un paese molto costoso. Ci trasferimmo circa quindici anni fa. Essere artisti in Francia è una buona cosa, è uno status abbastanza riconosciuto lì, perciò va bene. Vivo anche nella stessa città della mia etichetta discografica, e anche questo è un punto a favore. Per me ogni città, ogni paese ha i suoi pregi e i suoi difetti: per quanto riguarda la Francia non riesco a elencarli bene adesso, naturalmente ci sono anche cose che detesto (ride, ndr). Credo comunque sia molto importante per qualsiasi essere umano vivere in un paese diverso dal suo una parte della propria vita, perché ti fa riflettere, ti dona uno sguardo esterno sulla tua cultura, ti permette di esaminare te stesso in un modo più approfondito, cosa che non avverrebbe restando sempre nello stesso posto, circondato dalle stesse persone.

Molti concordano sul fatto che “The Broken Man” abbia raccolto, in un certo senso, la lezione del cantautorato europeo, rielaborandolo. C’è anche un pezzo, If Anyone Tells Me “It’s Better To Have Loved And Lost Than To Never Have Loved At All”, I Will Stab Them In The Face, che sembra rispondere a un verso arcinoto di Fabrizio De André, il cantautore probabilmente più noto in Italia («Io mi dico: è stato meglio lasciarci, che / non esserci mai incontrati»).
Io adoro la musica tradizionale, per questo amo il fado e il rebetiko e in generale tutta la musica tradizionale, da ogni parte del mondo. Ho veramente una pessima memoria per quanto riguarda i nomi: mi piace sedermi in un bar fumoso e ascoltare, mentre attorno tutti bevono. La ragione per cui mi piace questo tipo di musica folk è perché è stata scritta, in ampia parte, prima che l’industria musicale esistesse. Quindi era puro mezzo espressivo, e le motivazioni che ti spingono a esprimerti per me sono molto interessanti, molto importanti. Oggi non tutti, ma molti musicisti scrivono per tenersi al passo coi tempi, per fare soldi, per arrivare da qualche parte in termini – diciamo – economici, mentre la cosa fondamentale è semplicemente esprimere i sentimenti che gli esseri umani hanno da sempre provato: perdita, lutto, felicità, gioia. Io ho preso in qualche modo ciascuna di queste influenze e le ho rigurgitate in “The Broken Man”, che è probabilmente il mio disco più oscuro, più cupo. Non ricordo sinceramente il periodo di scrittura, ma sono certo che altri italiani mi abbiano fatto quello stesso nome, Fabrizio De André, e sono anche certo di averlo ascoltato su segnalazione di qualcuno, ma devo ammettere che la corrispondenza è del tutto accidentale.

Con “Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart” c’è stato un altro, importantissimo cambio di rotta in termini di scrittura. Possiamo dire che è il tuo disco più… sarcastico?
Sì, abbastanza: è un disco certamente più amaro rispetto a “The Broken Man”. Quando scrivi e incidi un album, non riesci a essere particolarmente obiettivo. Poi quando porti a termine il mix e lo ascolti insieme ai produttori, alla band, riesci a filtrarlo in un modo completamente diverso, perché quando ascolti qualcosa attraverso le orecchie di un altro è questo che avviene. Ascoltando “The Broken Man” mi ricordo di aver pensato: non posso essere più cupo di così, sarebbe troppo, anche se forse è il disco che amo di più. Così ho cominciato a lavorare su qualcosa di diverso, ho anche cambiato produttore, David Chalmin, e le composizioni sono cambiate, il sound è cambiato, nuovi elementi sono entrati in gioco in “Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart” e anche nell’ultimo lavoro che abbiamo registrato assieme, ma certamente i testi di “Only Myocardial Infarction Can Break Your Heart” sono i più amari che io abbia mai scritto, pieni di odio e veleno, e francamente non ne vado nemmeno fierissimo (ride, ndr).

Dunque c’è un nuovo album alle porte?
Sì, è pronto: abbiamo il master, abbiamo l’artwork, sarà pubblicato a marzo dell’anno prossimo e s’intitolerà “The Calm Before”, come “la calma prima della tempesta”.

Ho visto che hai pubblicato ieri su Facebook una foto scattata sull’Etna, e ho pensato: la musica di Matt Elliott è perfetta per quegli scenari.
Beh, l’Etna è una montagna meravigliosa: più ti avvicini, più ti rendi conto che c’è pietra lavica ovunque, e vecchia di milioni di anni, e tutto diventa sempre più… marrone. Quando arrivi in cima, la vista è eccezionale: puoi vedere il resto del vulcano, la città di Catania, il mare, una parte della Sicilia; è un posto magnifico. Anche se sono un miserabile bastardo su disco, mi piacciono le cose belle e mi piace molto ridere, solo che scrivo musica unicamente quando sono giù. Quando ascolto i miei brani sento sempre una marea di errori, è sempre la stessa storia: il disco è pronto e tu pensi “mio Dio, è un maledetto casino”. Dunque è difficile fare paragoni in tal senso, per me.

Mi sono reso conto soltanto oggi che è quasi trascorso un anno dalla morte di Nick Talbot, Gravenhurst, che tu conoscevi bene. Le cause della morte non sono ancora chiare, questo mi porta a chiedere a te e Josh: come riesce un cantautore ad affacciarsi così spesso sul dolore e mantenere, nonostante tutto, un equilibrio?
Quella di Nick è stata una notizia dolorosissima. Lo conoscevo bene, lo conoscevo sin da bambino. Per me, scrivere e suonare rappresentano una specie di terapia. Penso spesso che senza la musica mi sarei probabilmente suicidato tanti anni fa. Il mondo della psicologia accademica non capisce che oggi ognuno di noi soffre di un certo tipo di depressione, ed è abbastanza normale, perché viviamo in una società estremamente imperfetta e corrotta. Tutti sono stressati per questioni prevalentemente economiche, persino i ricchi, anzi: i ricchi sono le persone più miserabili al mondo. A dirla tutta, questa è la cosa che mi fa incazzare di più: noi ci facciamo schiavizzare per renderli ricchi e a loro nemmeno piacciono le loro vite. In ogni caso, esistono vari modi di fronteggiare la depressione, molti mi scrivono che sono depressi e io dico sempre che bisogna fare molto esercizio, fare soprattutto qualcosa di creativo, anche solamente per se stessi. Solo adesso scopriamo quanti benefici possa donare la music therapy, non soltanto quando si ha a che fare con la depressione ma in generale con tutte le malattie della mente. Può alleviare il dolore. In questo caso per me è difficile rispondere: certo, se suono una canzone legata ad un’esperienza triste mi sento triste perché rivivo quell’esperienza, ma in altri casi – e so che è bizzarro – ti capita di scrivere un pezzo e di comprenderne solo più tardi il significato. A me è successo con “Howling Songs”: avevo scritto quei brani per un motivo, poi la mia vita è cambiata ma quegli stessi pezzi descrivevano alla perfezione ciò che stava accadendo. È molto strano, ti ritrovi a pensare che forse il tuo subconscio sappia cosa sta per succedere, è affascinante analizzare come e da dove l’ispirazione giunga per essere poi filtrata dal tuo subconscio. Non sono una specie di hippie, ma mi sono reso conto – specie con Third Eye Foundation – che se ti apri del tutto alle coincidenze, sarai abbastanza felice per una serie di conseguenze del tutto casuali; lo stesso avviene con la scrittura. Non c’è niente di meglio che aprire la gola e urlare, sempre più forte. Lo raccomando a chiunque. Salite sull’Etna e gridate a squarciagola: alla fine vi sentirete molto, molto meglio. Se riuscite a controllare tutto questo e farne musica, even better.

PARTE SECONDA: JOSH T. PEARSON