Negli ultimi anni, in Italia, ha cominciato a ri-germogliare il seme del cantautorato, quello di qualità, affidato adesso non soltanto alla vecchia guardia ma anche a nuove leve che prepotentemente stanno salendo agli onori della cronaca. Fra questi c’è sicuramente la milanese Micol Martinez, uscita lo scorso anno con “Copenhagen”, il suo esordio da solista dopo le tante apparizioni in veste di collaboratrice. Un album intimo, sincero e ricercato che la Martinez ha portato in tour in lungo e in largo per l’Italia, rafforzandone il successo. Micol è stata di scena anche a Catania, allo Zo, lo scorso 26 marzo, all’interno della rassegna “Black Roses”. Il Cibicida ha scambiato qualche chiacchiera con l’artista.
Micol, cominciamo proprio da “Copenhagen”. Quanto tempo c’hai messo a comporlo?
Abbiamo registrato i brani di Copenhagen nella primavera del 2009 e il disco è uscito a febbraio del 2010. Ho composto i pezzi tra il 2008 e i primi mesi del 2009. In realtà avevo davvero tanto materiale perché scrivo da moltissimi anni. Abbiamo scartato molto e lavorato su quei brani che avevano un mondo preciso e qualcosa di più particolare rispetto agli altri.
Ti eri prefissata un obiettivo prima di entrare in studio, cosa volevi trasmettere?
Un punto fondamentale era che la produzione artistica coincidesse con la scrittura e che mi permettesse di comunicare nel modo più onesto possibile. Così è stato. Anche grazie alle persone che hanno collaborato al progetto.
A tal proposito, cosa ha portato Cesare Basile all’album come produttore e musicista?
Cesare è stato fondamentale sia come produttore che come musicista; sicuramente ha dato un’impronta molto forte all’album. Ogni tanto mi chiedo come sarebbero stati i brani se ci fosse stato qualcun altro a lavorarli. La scrittura è la mia e non cambia, ma il vestito che Cesare ha fato indossare ai miei brani apporta molto al risultato finale. Sono orgogliosa che il mio primo album sia stato lavorato da lui. Chissà cosa accadrà sul prossimo album; per il momento meglio non svelare nulla.
Quanto c’è di autobiografico in un brano come “Donna di fiori”?
Molto. Ogni donna rappresenta una situazione da me vissuta. Chiaramente la canzone non descrive con precisione queste situazioni. Basta scrivere il brano in prima o seconda persona e il senso per l’ascoltatore cambia – quello di cambiare la persona è un gioco che faccio spesso: in “Mercanti di parole” e “Copenhagen” il testo era scritto in seconda persona, poi nella fase finale l’ho cambiato – quindi le mie esperienze personali non sono completamente svelate, sono pretesto per creare immagini e trattare un tema particolare. In ogni caso parto sempre da esperienze personali.
C’è anche un pezzo molto “sociale” come “Testamento biologico”. Dove nasce l’esigenza di parlare di un argomento così delicato?
Il pezzo è nato con una naturalezza che ha stupito anche me. In due minuti il testo era scritto. Sono rimasta impressionata. Il tema mi tocca profondamente. Sono contenta poi di aver in questo modo sostenuto una causa fondamentale. Chiaramente sono a favore del testamento biologico perché sono a favore della libertà. Vorrei chiedere a tutti gli esseri umani di spegnere la TV, imparare a informarsi bene e non frettolosamente e poi accendere il cervello. La questione non è religiosa. E’ semplicemente intelligenza, capacità di analisi e conoscenza dei fatti. Nessuno costringe a non approfittare di cure mediche in casi particolari. Semplicemente io chiedo di essere padrona della mia vita, perché non è lo Stato a esserlo, e soprattutto chiedo di avere libertà di scelta.
Chi c’è dietro Micol Martinez a livello di ispirazione?
Potrei dirti mille nomi. La realtà delle cose è che sono il risultato di tutti gli ascolti fatti finora. Compresi quelli di quando ero piccola. Ho ascoltato talmente tanta musica che soffermarmi su qualche nome mi sembrerebbe riduttivo. E poi nel momento stesso in cui si scrive, se lo fai con totale sincerità, l’ultima cosa alla quale pensi è un riferimento preciso.
Attrice, cantautrice, dj, pittrice e chi più ne ha più ne metta. C’è un aspetto che, pian piano, sta prevalendo?
La mia musica. In realtà è sempre stato così. Il resto forse in un certo senso è stato funzionale alla prima. Anche se ammetto che mi piacerebbe fare ancora teatro. Anzi, per dirla tutta, mi manca.
Fare la cantautrice, in Italia, oggi, è più difficile di come non lo è negli USA o in Inghilterra?
Fare qualunque cosa in Italia è più difficile che negli USA e in Inghilterra. E’ una questione di rincoglionimento politico sociale. Chissà, forse lentamente (molto lentamente) ne stiamo uscendo. In tutto questo io sono stata fortunata.
Cambia qualcosa nella veste live rispetto allo studio di registrazione?
Nei live “standard” siamo in tre sul palco, quindi non possiamo rendere quei colori che nel disco sono dati dai fiati, dai violini e da altri strumenti. Ultimamente non sto portando più nemmeno il piano perché troppo pesante per essere trasportato. Ma il live ne guadagna in forza. E’ più scarno ma più diretto. Il disco ha un’impostazione più cantautorale mentre il live è più aggressivo. Le tonalità basse del disco sono riviste nella versione live in modo che io possa, vocalmente, esprimermi meglio. Quando invece giriamo in duo, sono l’interpretazione e la parola a sorreggere il live. Approfitto di questa intervista per ringraziare i miei musicisti: Alessio Russo alla batteria, Giovanni Calella alla chitarra. Ma anche Alessandro Grazian che mi ha accompagnato in alcuni concerti e Vincenzo Vitulli che ha fatto lo stesso in queste ultime date. Sono tutti musicisti straordinari.
Arrivasse l’opportunità di partecipare al Festival di Sanremo?
Se invitassero me vorrebbe dire che i criteri di selezione sono cambiati quindi, sì, parteciperei. E a quel punto parteciperebbero tantissimi artisti che amo.