25-03-06: Si è conclusa da pochi minuti la coinvolgente esibizione dei Midwest in programma nei locali de La Cartiera di Catania quando incontriamo Matteo Gambacorta, voce e chitarra del gruppo, per rivolgergli le domande de Il Cibicida. Le influenze della band, le difficoltà incontrate per emergere ed il nuovo album “Whatever You Bring We Sing” sono alcuni degli argomenti della tranquilla ed informale chiacchierata cui diamo vita.
Domanda: L’introduzione delle sessioni di fiati e archi è una novità importante rispetto all’album d’esordio, il suono minimale di “Town And Country” lascia adesso spazio ad una base strumentale più ricercata e stratificata. A cosa è dovuto ciò, semplice evoluzione o scelta ben precisa?
Matteo: Gli archi e i fiati sono una cosa che abbiamo sempre ascoltato con piacere nei dischi degli altri, e secondo me arricchiscono, danno delle sfumature particolari di cui noi avevamo bisogno per i nuovi pezzi. Quindi abbiamo avuto la possibilità di farlo, perché Francesco (Ferretti, ndr) che suona le tastiere suona anche il trombone, Paolo (Grassi, ndr) che suona la batteria suona anche il clarinetto, ed in più abbiamo collaborato col violinista dei Giardini Di Mirò (Emanuele Riverberi, ndr) ed un violoncellista che hanno appunto suonato queste parti… le canzoni ci chiedevano questi arrangiamenti e così sono venuti un po’ da se.
Domanda: Che il folk ed il country siano nelle vostre corde è palese, ma a tratti si riescono a scorgere anche venature blues nascoste… impressione mia o una occhiata al genere in questione l’avete lanciata di tanto in tanto?
Matteo: Del blues ci piace tanto il blues rurale, quello più intimo, anche se quello elettrico di derivazione ’50 e ’60 ci piace ed è stato fondamentale per lo sviluppo di un certo tipo di musica per come è oggi… siamo contenti se si notano queste sfumature… probabilmente è una cosa naturale che viene fuori ogni tanto.
Domanda: La vostra musica è evidentemente legata agli anni ’60. Quali sono i gruppi che vi hanno ispirato di più? Magari i Beatles, i Byrds o i brani più “cantautoriali” dei Beach Boys…
Matteo: Su tutti ci piace moltissimo Townes Van Zandt, che è un cantautore degli anni ’60 e ’70 che ha fatto dei dischi stupendi che ci hanno influenzato molto soprattutto per quest’ultimo lavoro… poi i Byrds come hai detto tu, tantissimo i Caleidoscope, Van Dike Parks, Gene Clark… tutto quello che è il folk, diciamo così, “meticciato”, come si usava fare ai tempi, quindi elettrificato, sintetizzato, sporcato, rimescolato…
Domanda: Il vostro folk-rock è un genere di matrice prettamente statunitense. E’ difficile fare folk-rock in Italia ed in generale in Europa?
Matteo: In Europa forse è un pochino più facile, paesi come la Germania, l’Olanda, la Scandinavia e l’Inghilterra sono attenti anche a questo tipo di suoni… in Italia effettivamente abbiamo meno possibilità da questo punto di vista. Forse sarebbe una buona cosa per noi preoccuparci di trovare uno sbocco negli Stati Uniti, perché il nostro suono lì ha più chance… speriamo un giorno di potere in qualche modo utilizzare quel canale.
Domanda: Quindi si può dire che l’orecchio dell’ascoltatore in Europa è meno abituato a queste sonorità?
Matteo: Si, penso sia una questione di cultura differente, il pubblico qua non predilige questo tipo di musica, è un orecchio diverso, magari va più l’indie-pop o l’indie-rock, il post-rock… i suoni più folk, country, anche se rimescolati e riadattati hanno una strada più difficile. Anche se tanti artisti americani ed inglesi che fanno un certo tipo di musica in Italia sono apprezzati, ma per una piccola band italiana è difficile riuscire a trovare spazio fra questi.
Domanda: Avete mai pensato, e magari provato in studio, a discostarvi un po’ dalle ballate melodiche aggiungendo qua e la qualche spunto marcatamente rock?
Matteo: Forse abbiamo dato quando eravamo al liceo, avevamo gruppi che facevano cover degli Shellac e di altri gruppi noise-rock… naturalmente poi ci è venuto più facile suonare folk ed avere un suono più intimo, più ricercato. In futuro non penso che “schitarreremo”, anche se già dal vivo cerchiamo di movimentare un po’ le cose.
Domanda: “Whatever You Bring We Sing” è un album meno cupo dell’esordio “Town And Country”, e lo testimoniano anche brani decisamente pop e “scanzonati” come “Odd Fair”. Come spiegate questo cambiamento?
Matteo: Avevamo quei pezzi, abbiamo cercato di arrangiarli come meglio credevamo, come ci veniva al momento e sono venuti fuori così, un po’ più solari… abbiamo cercato strade nuove, non ci siamo preoccupati tanto del risultato, avevamo delle idee e ci abbiamo lavorato sopra.
Domanda: Parlaci un po’ dei rapporti con la vostra etichetta, la Homesleep, e soprattutto con uno dei “capi”, Matteo Agostinelli (Yuppie Flu, ndr)… avete totale libertà compositiva, vi consiglia, vi aiuta in fase di produzione?
Matteo: No, non c’è un rapporto diretto con la produzione, coi suoni, siamo realtà indipendenti dal punto di vista musicale. Con Matteo siamo amici, ci conosciamo, gli Yuppie Flu sono il gruppo della Homesleep che ci piace di più, che seguiamo di più, c’è un rapporto di amicizia… in realtà con la Homesleep il vantaggio nostro è di avere avuto una buona visibilità, e quindi siamo riconoscenti nei loro confronti per questo, abbiamo avuto una attenzione particolare.
Domanda: Da band rivelazione del mercato indie italiano, quali altri vostri “colleghi” potete segnalarci? Insomma, quali band italiane preferite?
Matteo: Abbiamo sempre seguito e ci piacciono i Jennifer Gentle, fin dai primi dischi che hanno fatto, e siamo contenti che abbiano fatto questo grosso passo negli Stati Uniti. Ci piacciono i Franklin Delano, con i quali ci sentiamo affini per certi versi, e poi i gruppi della Homesleep che conosciamo e ci piacciono tutti… ci sono tante buone realtà in Italia, come gli Encode di Varese con i quali abbiamo un rapporto di amicizia…
Domanda: La famosa scena di Varese di cui tanto si parlava qualche anno fa, ma che alla fine non è esplosa come si immaginava…
Matteo: Diciamo che i gruppi erano tutti pronti, ma è mancato l’anello che congiungesse e desse una connotazione territoriale al tutto… adesso c’è la Ghost Records, proprio di Varese, che fa ottime cose ed è attenta ai gruppi del territorio. Ma nel momento in cui è esploso il fenomeno, e in cui c’erano tante band che collaboravano e si vedevano spesso, è mancato forse il locale o il supporto cartaceo, qualcosa che caratterizzasse il fenomeno. Piano piano le cose cambiano, molti gruppi si sono sciolti… è stato un momento intenso che però è passato, nonostante la situazione sia ancora molto buona, fervida.
Domanda: Vedete nella vostra musica un’anima cinematografica? Queste lunghe cavalcate strumentali potrebbero musicare un film… non so se avete mai pensato a questo aspetto o magari se vi è già stato proposto…
Matteo: Si, ci è stato proposto per un documentario, ma non avevamo il tempo per poterlo fare perché stavamo lavorando al nuovo disco, e a noi piace concentrare le energie, le idee, su una cosa per volta, anche perché non saremmo capaci a fare diversamente, facciamo già fatica così (ride). Se ci fosse la possibilità sarebbe un’ottima cosa… “Una storia vera” di David Lynch ci è sempre piaciuto, particolare, una di quelle storie out americane…
Domanda: Domanda di rito, se ti dico Cibicida cosa ti viene in mente?
Matteo: E’ una parola siciliana? (ridiamo, poi gli accenniamo qualcosa sul reale significato…)
* Supporto a cura di Riccardo Marra
* Foto a cura di Riccardo Bresmes
A cura di Emanuele Brunetto