Dal Worcestershire, in Inghilterra, a Cassadaga, nello stato di New York, c’è un oceano di mezzo. Distanze non ricucibili in questo anno di pandemia. Geografie che si fanno improvvisamente proibitive, come un tempo. Nessun aereo, nessuna navicella spaziale in grado di condurre i Mogwai dal produttore Dave Fridmann e viceversa. Sono i mesi di lockdown del 2020. Fridmann decide di guidare la band – accasatasi al Vale Studios di Pershore, due ore d’auto dal Galles – attraverso l’icona celeste di Zoom nel chiuso del suo studio americano. Si fanno così i dischi in questo folle periodo. A distanza. È una condanna, ma forse l’unico modo per non fermare tutto. Nasce in questo modo As The Love Continues che, del romanzo musicale Mogwai, rappresenta il capitolo numero dieci. Tre decenni di musica strumentale, o post rock… anche se quest’ultimo è un termine che gli scozzesi hanno sempre disprezzato. Dieci dischi che raccontano un’evoluzione sonora complicatissima per restare vivi. La band c’è. È ancora lì, a differenza di altre rimaste imbrigliate negli stilemi di un “genere” pieno di certezze e quindi vittima facile dei mutamenti del tempo. A proposito di tempo, per parlare del nuovo album partiamo proprio da lì in questa intervista a Barry Burns, polistrumentista del gruppo. Il tempo, sì. Sempre lui.
Barry, dal vostro primo singolo “Tuner/Lower” a oggi sono passati venticinque anni. Tanto tempo. Quanto è cambiato il mondo da allora?
Beh, è cambiato tutto, soprattutto la maniera in cui la gente consuma musica che è totalmente diversa da prima.
È una cosa che vi disturba?
Mah, ti dirò, no, in qualche misura a me piace tutto questo. Se ci si riesce ad adattare si possono fare belle cose. Il concetto di “album” non è più importante per le persone e non c’è niente che possiamo fare per cambiare questo trend.
E invece, quanto siete cambiati voi?
Il modo in cui scriviamo musica non è più lo stesso. Decisamente.
E la maniera di stare in una band? Tu, Stuart, Martin e Dominic. Sempre voi.
Ci sentiamo come una piccola gang. Una gang di vecchi. È davvero una bella sensazione, credimi.
“As The Love Continues” arriva a un anno esatto dall’inizio del caos mondiale. Quanto è cambiato il vostro quotidiano? Tu hai un bar a Berlino, il Das Gift.
Il bar è chiuso. Io sono tornato a Glasgow a partire da Novembre e al momento non posso tornare in Germania. Personalmente non sarà bello doverci privare di un tour a supporto del nuovo disco. Allo stesso modo però è stato fantastico avere tanto tempo per scrivere le canzoni. Mettiamola così.
“Distanza” sembra una parola chiave quasi inevitabile per questo nuovo lavoro…
Beh, di certo non è stato ideale incidere il disco a distanza. Però io vedo la questione da una prospettiva differente: grazie alla tecnologia siamo riusciti ad andare avanti con la registrazione. E ti dirò di più: mi piace il fatto che basta premere un tasto su Zoom per non sprecare litri di carburante, magari per andare a fare interviste dall’altra parte del mondo.
Proprio come stiamo facendo adesso io e te. Ma non ti spaventa che la distanza possa diventare un elemento fisso delle nostre vite?
Sì, certo. Spero non accada. Spero di no.
I titoli dei vostri dischi storicamente non sono mai stati ancorati a un significato preciso, stavolta però “As The Love Continues” sembra suggerire il sentimento di questi mesi: nonostante tutto ci si continua ad amare.
È così, i nostri titoli non hanno un significato specifico. L’origine di “As The Love Continues” deriva da qualcosa che ha a che fare con la figlia piccola di Martin Bulloch. Un giorno se ne è uscita con questa frase, a noi è piaciuta molto e quindi l’abbiamo usata per il disco. Però ognuno è libero di appropriarsi del significato che preferisce, va benissimo.
Il disco è partito da una suggestione in particolare? Una scintilla?
Non la definirei una scintilla. Ma tutto ha preso vita dalla necessità di rimetterci a suonare di nuovo. Pensa che abbiamo iniziato a fine 2019. Ottobre. Diciamo che ci piace stare il più occupati possibile, è quasi un’esigenza.
Ok, torniamo alla libertà di interpretazione. Per me “Dry Fantasy” (uno dei due singoli di lancio insieme a “Ritchie Sacramento”, ndr) “parla” della fantasia che viaggia al posto nostro.
Posso dirti che l’unico significato che do a questo pezzo è che amo alla follia i sintetizzatori.
A proposito di questo, ecco, ho quasi paura a chiedertelo. Nel 2007 ti intervistai sempre su queste pagine e, sull’argomento post rock, mi rispondesti: “È un termine di merda, non ci rappresenta”. Poi hai aggiunto che preferivi chiamare la vostra musica “fuck-sexs-punk-rock-for-lonely-boys”. Quattordici anni dopo, ti va di aggiornare il termine?
Ahahaha cazzo! Penso di aver fatto un ottimo lavoro con quel termine! Lo confermo.
Ottimo! Che qualcuno aggiorni Wikipedia allora! Provando a tornare seri, in che stato di salute si trova il rock strumentale?
Lo so che sembra strano, ma lo stai chiedendo alla persona sbagliata. Non ascolto quasi per nulla la musica strumentale.
Neanche la vostra?
Cerco di stare sul pezzo il più possibile… ma ascolto solo i dischi nuovi e per un mese o due dopo che il missaggio è finito. Poi li lascio da parte per dieci anni o più. C’è troppa altra musica da sentire.
A proposito, a Marzo torneranno i vostri amici Arab Strap. Esiste ancora un movimento scozzese o parlare ancora di movimenti in questo periodo di geografie liquide è del tutto inutile?
C’è sempre grande musica che viene da Glasgow e dalla Scozia in generale. Dischi super diversi e non omogenei. Non so se sia mai esistito un vero movimento scozzese, abbiamo sempre avuto molto da fare per pensarci.
In effetti è famosa la vostra iperattività. L’anno scorso, ad esempio, avete pubblicato “ZeroZeroZero”, la colonna sonora per la serie TV ispirata al libro di Roberto Saviano.
Noi abbiamo fatto il nostro, ma la parte più difficile è spettata ai registi che si sono occupati di miscelare Mogwai e Saviano. Abbiamo cercato di adattare la musica a ciò che serviva. Sinceramente è una delle cose più belle che abbiamo mai scritto.
Il nuovo disco esce il 19 Febbraio e contiene tante sorprese musicali. Una volta dei Mogwai si diceva: è una band triste che oscilla continuamente tra alti e bassi. Siete cambiati molto nel tempo, cambiare è restare vivi?
Sì, assolutamente. Alcune persone si lamentano del fatto che non suoniamo più come prima, ma non si rendono conto che per noi quello è il complimento più bello che ci possono fare.