Nel corso della loro ormai trentennale carriera, i tedeschi Notwist hanno cambiato più e più volte pelle, aggiungendo ad ogni muta qualche nuovo elemento alla loro proposta sonora, impastando chitarre, elettronica, attitudine indie e propulsioni post rock ma mantenendo sempre ben salda la loro visione artistica con invidiabile coerenza. Il loro ultimo progetto è una performance audiovisiva ispirata a “Messier Objects”, il loro album del 2015, performance che stanno per portare anche in Italia per ben cinque appuntamenti. Di questo – ma non solo – abbiamo discusso con Markus Acher, fondatore, voce, chitarra e mente della band, che ci ha svelato qualche curiosità sui Notwist e ha preannunciato come molto probabilmente il prossimo anno riusciremo ad ascoltare un loro nuovo lavoro in studio.
Markus, iniziamo dal tour che sta per portarvi in Italia: com’è nata l’idea di questo spettacolo ispirato a “Messier Objects”?
L’abbiamo messo a punto due anni fa come programma speciale dell’Alien Disko, il nostro festival a Monaco di Baviera. È stato davvero molto divertente portarlo in scena in quella forma e penso che anche il pubblico abbia gradito, quindi abbiamo deciso di riprovarci in giro.
Pensavate che il disco necessitasse di un ulteriore “sviluppo” affinché venisse compreso appieno?
No, onestamente non credo, è semplicemente un aspetto diverso della nostra musica. Anche negli altri nostri album è possibile vederci qualcosa di differente, questa è solo una formula che ci dà la possibilità di sperimentare e giocare con altri suoni, altri stili e altri mood.
Quanto ha a che fare “Messier Objects” con il vostro concetto di cinema? Perché le sue sembianze sono proprio quelle di una soundtrack…
Quella sul disco è tutta musica che abbiamo realizzato per pièce teatrali e radiodrammi, quindi si tratta pur sempre di una colonna sonora per una storia o più in generale per un testo. Abbiamo messo tutto insieme e creato un qualcosa, quall’album, che può anche esistere così e avere una narrazione diversa. Dal vivo vedrete anche gli elementi visivi del nostro amico Anton Kaun, che ha messo in piedi con le immagini qualcosa di molto simile a ciò che facciamo noi con la musica.
Facciamo un passo indietro a “Superheroes, Ghost-Villains + Stuff”, il vostro live del 2016: la resa dal vivo dei Notwist spesso è molto diversa da come suonate negli album. Possiamo dire che i vostri brani non hanno e non avranno mai una dimensione definitiva?
Sì, è vero. Molto spesso registriamo i pezzi non appena abbiamo finito di comporli e in quel momento suonano molto nuovi anche per noi. Poi però iniziamo a proporli dal vivo e lì possono cambiare molto, perché magari una parte s’allunga, oppure non possiamo riprodurre qualche elemento esattamente come l’abbiamo registrato e quindi dobbiamo ovviare con altra strumentazione. Diciamo che proviamo a mantenere il tutto sempre interessante anche per noi, oltre che per chi ci ascolta.
Pensi che aver fatto scelte sonore così varie, nel corso della vostra carriera, possa avervi tolto qualcosa in termini di popolarità (dando per supposto che la cosa vi interessi)?
Non so, ma in realtà non importa. Credo che dobbiamo essere felici per ciò che facciamo e per il modo in cui realizziamo i dischi, in fondo ci basta riuscire ad ascoltare noi stessi.
A proposito di popolarità: sono passati diciassette anni dall’uscita di “Neon Golden”. Siete mai riusciti a spiegarvi le ragioni del suo enorme successo?
Penso solo che sia arrivato al momento giusto… Forse un’adeguata miscela tra una “band indie” e l’elettronica? Ma non ci ho mai pensato troppo, perché in fin dei conti vedo tutti i nostri dischi (ma anche quelli delle altre band in cui suoniamo) come pezzi di un puzzle più grande.
Se guardo alla vostra carriera, penso sia una buona rappresentazione dell’evoluzione del rock stesso negli ultimi tre decenni: qualcosa del tipo “dalle chitarre all’elettronica”. Ti riconosci un po’ in questa descrizione?
Mmm… Per quanto ci riguarda, credo che la nostra non sia stata una strada tanto dritta, avevamo molte vie da poter seguire e l’abbiamo fatto. Ci siamo interessati a tanta e tanta musica diversa, finendo per rendere la nostra sempre più complessa e variegata… Almeno, speriamo di esserci riusciti.
Tra le molte collaborazioni cui avete dato vita, ce n’è una che vi ha segnati più delle altre?
Come Notwist, penso che abbiamo imparato molto dalla collaborazione con Dax Pierson e da quella con Doseone e Jel nel progetto 13 & God. Per quanto riguarda me personalmente, invece, gli Spirit Fest, una band in cui collaboro con i giapponesi Tenniscoats, il londinese Mat Fowler e Cico Beck (che è con me anche nei Notwist), sono un’infinita fonte d’ispirazione e divertimento.
Una curiosità: quanto vi dà noia, da tedeschi, il termine “krautrock”? Ho sempre pensato che si tratti più di una connotazione territoriale che di un vero genere musicale… sarebbe meglio chiamarla semplicemente psichedelia, non trovi?
Oh, in realtà è una cosa che ormai non mi fa più arrabbiare. Penso che quando quella definizione è venuta fuori, negli anni Settanta, forse poteva anche suonare provocatoria, ma adesso è banalmente un termine standard per identificare uno specifico gruppo di band che tutti, anche in Germania, chiamano così.
Chiudiamo con una domanda classica: cosa dobbiamo aspettarci dal futuro dei Notwist? C’è un nuovo album in vista?
Di recente abbiamo composto molta musica per film, che magari un giorno raccoglieremo e pubblicheremo. Nel frattempo sì, stiamo anche lavorando a un nuovo disco che vorremmo riuscire a pubblicare il prossimo anno.