Negli anni abbiamo imparato che con gli Afterhours, e con Manuel Agnelli in modo particolare, nulla è come sembra a primo impatto. Lo insegna la loro storia, le scelte artistiche e d’immagine operate, lo ha insegnato la tanto vituperata partecipazione a Sanremo e la successiva riabilitazione grazie alla compilation dell’indipendente italiano “Il Paese è reale”. Lo ha insegnato il supporto a 360° ai vari teatri/spazi occupati in giro per l’Italia. Lo ha insegnato, solo poche settimane fa, l’annuncio di Agnelli come nuovo giudice di X Factor e, subito dopo, l’ascolto di Folfiri o Folfox, doppio album tra i meno “facili” della discografia della band, pubblicato proprio nel momento di massima esposizione mediatica del frontman. Niente è come sembra con gli Afterhours, conviene sempre aspettare di avere un quadro completo piuttosto che lanciarsi in valutazioni frettolose.
Quella del Market Sound era un’occasione speciale per gli Afterhours, la prima volta dei nuovi brani nella loro città e il maltempo ha rischiato di rovinare tutto, raffiche di vento freddo e nuvole minacciose in cielo. Ma anche le intemperie hanno dovuto arrendersi (“l’abbiamo messo in culo al tempo”, dirà Agnelli sul finire), il concerto scorre via liscio come l’olio per entrambe le sue due ore di durata.
La setlist è ovviamente incentrata su “Folfiri o Folfox” e va benissimo così: Grande (eseguita in apertura, in acustico e in solitario da Agnelli), Ti cambia il sapore e i due singoli Il mio popolo si fa e Non voglio ritrovare il tuo nome, ma anche Né pani né pesci, Cetuximab, L’odore della giacca di mio padre, Fra i non viventi vivremo noi e la chiusura di set con Se io fossi il giudice, sono lo specchio fedele dell’attuale dimensione della band. La scrittura di Agnelli, il suo mettersi a nudo parlando della recente scomparsa del padre, e poi l’impalcatura musicale che fa trovare ai nuovi innesti Stefano Pilia (chitarra) e Fabio Rondanini (batteria) l’incastro perfetto con quei tre musicisti superbi che sono Roberto Dell’Era, Rodrigo D’Erasmo e Xabier Iriondo. Gira tutto alla perfezione sul palco degli Afterhours e al loro interno, non c’è che dire.
La percezione è che i nuovi brani siano già entrati nel cuore e nella testa del pubblico, il coro costante che li accompagna non è tanto meno partecipato di quello per classici come Varanasi Baby o Bungee Jumping, Padania o la meravigliosa Costruire per distruggere, ma certo è che quando nell’encore partono in sequenza La verità che ricordavo, Riprendere Berlino, Strategie, Non è per sempre, Quello che non c’è e Bianca, lo spirito della storia del rock italiano si palesa sul palco con evidente approvazione.
Menzione a parte per Pop (Una canzone pop), tirata fuori a oltre vent’anni dalla sua pubblicazione e mai così attuale, e per la conclusiva Bye Bye Bombay, vero momento di catarsi e immedesimazione collettiva di ogni concerto degli Afterhours da tanto tempo a questa parte. I presenti cantano a squarciagola, Agnelli sembra quasi volersi godere il momento senza disturbare e si fa da parte. L’amore, degli Afterhours per il loro pubblico e di questo per la band, sembra proprio qualcosa di inscalfibile, a prescindere da ciò che potrà mai accadere giù dal palco.
SETLIST: Grande – Ti cambia il sapore – Il mio popolo si fa – Non voglio ritrovare il tuo nome – Ballata per la mia piccola iena – Varanasi Baby – Vedova bianca – Padania – Né pani né pesci – Male di miele – Cetuximab – L’odore della giacca di mio padre – Sangue di Giuda – Bungee Jumping – La sottile linea bianca – Costruire per distruggere – Fra i non viventi vivremo noi – Se io fossi il giudice —ENCORE— La verità che ricordavo – Riprendere Berlino – Strategie – Pop (Una canzone pop) – Non è per sempre – Quello che non c’è – Bianca – Bye Bye Bombay