La performance comincia alle 21.30, nel suo tripudio minimal di singulti elettronici e visuals, come abitudine. E’ uni rec ad avviare i giochi di una proposta appesa in bilico tra mondi collidenti e mai stridenti tra loro, un’installazione della durata complessiva di 70 minuti circa – ciascuno pregno di significato, persino e anzi particolarmente nell’assenza, nella privazione, nella soppressione del suono. Chi saggiamente non distoglie gli occhi dallo schermo, viaggia attraverso gli ora vicinissimi univ(e)rs(i) forgiati dal Maestro teutone, volto a celarsi nella sua mise neutralmente nera, invisibile, oscura.
L’atterraggio – infine – avviene per mezzo della brutale gradualità di uni acronym, parossismo di loghi e sigle e santissime irrinunciabili trinità del consumo.
Se il problema di una città mediamente piccola quale il capoluogo etneo fosse nient’altro che la ripetizione biennale d’un simile appuntamento, ci si potrebbe vantare d’una programmazione assai rara e oserei dire puntuale, adeguata, importante. E’ la great gig nel mezzo, che rende lontani e (quasi) impossibili i Ben Frost, Fuck Buttons, Tim Hecker e compagnia bella a fotografare il dissesto.
Almeno per una sera, invece, i ponti sono stati tagliati. Bisognerebbe semplicemente farlo più spesso. O bisognerebbe – forse – semplicemente vivere da un’altra parte.