Sulle pagine de Il Cibicida abbiamo parlato svariate volte del difficile rapporto tra l’Italia e i festival, del nostro ruolo di fanalino di coda europeo a riguardo. Se poi parliamo delle località balneari, beh, non provare neanche a imbastire qualcosa di interessante rientra nel puro masochismo, visto che a parità di line-up ovviamente il turista appassionato di musica in estate sceglie nel 99% dei casi una location con spiaggia vicina anziché il Regno Unito, la Germania o la pianura padana.
Qualcosa però in Italia sta (lentamente) accadendo, così dopo l’ormai affermato Ypsigrock in quel di Castelbuono (PA) vi parliamo del Siren Festival di Vasto (CH), deliziosa cittadina adriatica del Sud dell’Abruzzo. Il festival delle sirene è giunto alla sua quarta edizione e non si può certo dire che non curi i dettagli in funzione turistica: c’è la possibilità di prenotare lettino da spiaggia e ombrellone insieme al biglietto del festival, il cibo è di qualità superba (dimenticate gli orrendi panini con una fetta di prosciutto: a Vasto ci sono stand che propongono frittura di calamari o piatti stellati di un pluri premiato ristorante vicino, al prezzo del panino al prosciutto o poco più), gli stage sono molteplici ed estremamente suggestivi.
Una piccola parte del festival è in spiaggia, ma noi ci concentriamo sul segmento cittadino perché è lì che sono presenti gli artisti di nostro interesse. Ritirato il nostro accredito poco prima delle 20.00 entriamo in centro città, vera anima del festival. Nonostante i diversi palchi, a spartirsi i nomi grossi della line-up sono il palco principale di Piazza del Popolo – perfetta con la sua lieve pendenza e il mare sullo sfondo – e il cortile di Palazzo d’Avalos.
La nostra serata inizia con l’esibizione dell’israeliana Noga Erez, che ricorda a più riprese M.I.A.: il paragone è sicuramente importante, ma la ragazza di Tel Aviv ha il tempo dalla sua parte. Dopo Noga Erez a pochi metri si esibiscono Carl Brave x Franco 126, idoli dei più giovani: li perdiamo più che volentieri e guadagniamo la prima fila per una delle attrattive principali della serata, Ghostpoet. I volumi fin troppo alti che ci inducono a indietreggiare dopo il primo brano (l’ottima Better Not Butter) non aiutano a ricreare all’istante le magiche atmosfere alle quali il trentaquattrenne inglese ha abituato su disco, ma la bellezza della sua musica emerge facilmente quando si ascoltano pezzi straordinari come Be Right, Moving House e il nuovo singolo Trouble + Me, con la band lo aiuta in questo viaggio lungo un’ora.
Non assistiamo all’intero live di Ghostpoet per goderci al meglio quelli che sono il motivo principale che ci ha spinti al Siren Festival, ovvero il ritorno sulle scene degli scozzesi Arab Strap. La nostra scelta è saggia, perché a un certo punto il cortile di Palazzo d’Avalos registra… il sold out. In poche parole alcuni spettatori rimangono fuori a inizio concerto, perché – probabilmente in osservanza delle recenti norme sulla sicurezza degli eventi musicali – si preferisce tenere dello spazio libero all’interno del cortile. Si crea una situazione strana, nella quale chi sta dentro non esce per paura di perdere il posto, dopo un po’ vengono saggiamente aperte le porte e se c’è gente che entra ce n’è altra che esce, in pieno spirito festivaliero.
Venendo all’aspetto musicale, ci si emoziona già alle cornamuse che introducono gli Arab Strap, che con il loro unico e sfacciato mix di generi – indie rock (quello di una volta, quello vero), elettronica, folk – dominano letteralmente la scena, regalando l’esibizione migliore della serata. Aidan Moffat appare a tratti leggermente arrugginito, ma è aiutato a dovere dal resto della band, più numerosa e rumorosa rispetto al passato. I live della band scozzese sono rinomati per l’atmosfera generale ricreata, ma ci sono alcuni momenti che è bene distinguere perché registrano dei picchi qualitativi assoluti: come non menzionare Don’t Ask Me To Dance, la struggente Who Named The Days? e la delirante The First Big Weekend?
Il pubblico apprezza parecchio, anche se nel finale si dimezza perché è previsto a pochi metri di distanza il live di Trentemøller, che di fatto aspetta la fine dell’esibizione degli Arab Strap per cominciare il suo concerto. Viviamo alcuni secondi di rara suggestione, quando – con ancora in testa il ritornello di The First Big Weekend – attraversiamo a passo spedito il centro di Vasto per raggiungere Piazza del Popolo, dove ci si presenta a mezzanotte e venti uno scenario quasi mistico: scenografia che più dark non si può, una decina di fiaccole sul palco e ovviamente tanta, tantissima gente che rende meno inquietante l’allestimento studiato dal danese.
Rispetto ai live di qualche anno fa Trentemøller cambia musica, in tutti i sensi: la band rimane, ma il senso complessivo si riavvicina al concetto di uniformità sonora tipica di un dj set. A farne le spese sono alcuni classici tenuti clamorosamente fuori dalla scaletta (visto l’enorme potenziale non del tutto espresso nella discografia del danese, uno spazio per “Take Me Into Your Skin” e “Gravity” poteva essere trovato),ma il giudizio rimane assolutamente positivo: in un’orgia di sonorità new wave il live nel finale assume connotati trionfali, con Still On Fire e Circuits a farla da padroni.
L’esibizione di Trentemøller finisce, il festival continua: è la volta di un magistrale dj set di Daniel Miller, già fondatore della Mute Records (Depeche Mode, Nick Cave, Wire tra i vari artisti avuti sotto contratto negli anni), ma per noi venti minuti possono bastare. Torniamo a casa felici, perché alla voce “festival” qualcosa in Italia comincia finalmente a muoversi.