Lo sterminato universo delle band tristomani si divide tra Chi Ci È e Chi Ci Fa. Be’, come l’intero scibile umano. Parto dal secondo dei due termini della coppia. Chi Ci Fa ha quella patina di ridicolaggine che un orecchio desto intercetta nell’immediato e ripudia senza mezzi termini. Si sente lontano un miglio che il mal di vivere è posticcio e puzza come il pesce lasciato fuori dal frigo in un caldo pomeriggio di piena estate. Purtroppo, i Chi Ci Fa sono tanti, milioni di miliardi, il mondo ne è pieno, così come ne ho piene le tasche. Penso a tutti quei malincomani post-grungers da ipermercato o a molti dei folk-singers così trendy & belly che girovagano per le feste IN coi loro vestiti trasandati dal prezzo mai al di sotto delle quattro cifre. Un castigo per tutti, insomma. Poi ci sono i Chi Ci È. Non tantissimi, questi qui di stampo verace, ma neanche così pochi. Di certo sono una minoranza etnica da difendere, roba da salvaguardia dell’Unesco. Penso a un Vic Chesnutt o a un Leonard Mynx, o agli Alice In Chains, gente che ha fronteggiato i demoni dell’anima e s’è difeso con le unghie e i denti, salvo poi arrendersi. Perché essere dei Tristomani Veraci non è comodo come star spalmati sul sedile di una Limousine a sorseggiare un bel drink fruttato. No no. Tutto questo preambolo per dire cosa? Per dire che i Balmorhea, quest’oggi presenti in quel di Milano, appartengono al nugolo dei Tristomani Veraic, quelli capaci di tirar fuori dalle viscere mestizia pura, di rigurgitare l’autunno che imperversa dentro ognuno di noi per interpretarlo e conferirgli una fisionomia artistica.
E’ un 2 novembre non ancora avvolto dal consueto gelo meneghino. La Scighera, locale del giro Arci, su Google Maps sembrava così lontana che coi colleghi d’ufficio qui in mia compagnia s’è dibattuto non poco sul Come Ci Andiamo e sul Come Ci Arriviamo Lì. E invece, si arriva belli quieti e con largo anticipo alla Scighera, che, all’interno, ha l’aria familiare a metà tra una trattoria e una cascina riabilitata a circolo ricreativo. Questa la prima sala. Quella adiacente, dove si terrà l’attesa performance dei Balmorhea, è come un teatrino ristretto dopo una centrifuga in lavatrice. Il tetto in legno con le assi color miele, le pareti bianche e in più punti disadorne, un soppalco che costeggia tutta la parete est lasciato sguarnito per l’occasione. Un lungo telo scende sullo sfondo del palco a dare quel tocco di sobria eleganza a un ambiente ospitale. Ho il tempo per acquistare una t-shirt del gruppo allungando il corrispettivo direttamente tra le mani di Michael Muller, chitarrista della band che gestisce il banchetto del merchandise con Aisha Burns, la brava e carina violinista.
Nel frattempo, la sala concerto si riempie e, facendo un calcolo forfettario moltiplicando le file di sedie per le teste che vi spiccano sopra, ci saranno più di cento persone qui dentro. Al conto vanno sommati quelli che rimangono in piedi alle mie spalle. In tutto sono più di quanti me ne aspettassi, se si pensa che la serata non è stata per niente pubblicizzata e che i Balmorhea non sono i Coldplay. Per fortuna. L’età media supera ampiamente i trent’anni. Io e i miei colleghi abbassiamo la media, siamo dei pischelli.
Alle 22.40 in punto, sulla Scighera cala un buio così denso che, per prendere appunti, devo farmi luce col cellulare, che mantiene l’accensione dello schermo solo per pochi secondi. Una faticaccia.
Rob Low (pianoforte), Michael Muller (chitarra, già detto), Aisha Burns (violino, vedi sopra), Travis Chapman (contrabbasso suonato con l’archetto), Dylan Rieck (violoncello) e Kendall Clark (batteria) si presentano sul palco con l’aria dei nerd radicalsciccosi dalle scriminature rettilinee e occhialoni con montatura in osso scuro. Quella di Low è in metallo e lo fa somigliare a uno sfigato anni Ottanta che passa le intere giornate davanti al suo rumoroso e antidiluviano IBM a giochicchiare con algoritmi e strutture frattali. Tolto l’elemento estetico, del tutto superficiale, i sei sono visceralmente coinvolti in quel che suonano, lo si nota da come si lasciano trasportare quando i brani aumentano di tono e da come oscillano lievi quando l’ambiente s’immalinconisce, quasi fossero sottili fili d’erba in mezzo ai venti della brughiera.
Il set attinge soprattutto alle ultime due prove in studio del gruppo di Austin, Texas, “All Is Wild, All Is Silent” del 2009 e il magniloquente “Constellations” dello scorso anno. Ad onor del vero, è riproposta nella sua quasi integrità “Live At Sint-Elisabethkerk”, prima collezione di estratti dal vivo in carriera uscita nel marzo di quest’anno.
Partono col pianoforte circolare di Settler, che ha nella seconda parte cori dalla fulgida impronta gospel, influenza che emerge in più punti. Sin da subito si nota come la musica dei Balmorhea raggiunga alte vette emozionali grazie ad equilibri gracili. Basterebbe un suono mal calibrato o il volume di uno strumento un po’ sporgente per lederne la perfetta alchimia.
Passano in rassegna To The Order Of Night e le onde che spumeggiano sulla battigia di Winter Circle, l’impeto di tristezza di Clamor e i cori da ascensione dell’anima di November 1, 1832. Il pianoforte di Rob Low è soffuso e orchestra le dinamiche, gli archi lo venano rimanendo spesso in sospensione come il fremito delle ali di un’ape che impollina un fiore. La chitarra di Muller ha toni bluesati che irradiano rami di calore su cui crescono fiorescenze cristalline.
Dal vivo affiorano tutti gli archetipi da cui ha origine il velluto sonoro dei Balmorhea: l’estetica romantica di Debussy e Satie; l’isolazionismo dei Low; la penombra cameristica dei Rachel’s; il susseguirsi dei temi melodici con sfumature e sovrapposizioni tipico dei Godspeed You! Black Emperor; l’estasi autunnale di Sylvain Chauveau. Il tutto però rielaborato dalla forte personalità del sestetto, riconoscibilissimo in molti fraseggi e nelle architetture degli arrangiamenti.
Ottima la sequenza delle canzoni, composizioni dalle campiture più fosche si avvicendano con altre percorse da turbolenze più epiche, a tratti apocalittiche. I Balmorhea non indugiano troppo sulla tristezza a tutto campo, ma concedono spiragli di luce che si allungano sulla scena, seppur fiochi.
Ogni tanto il chiacchiericcio dell’altra sala, al di là della tenda, s’infiltra tra le note soprattutto quando il gruppo si porta radente al suolo: la tentazione di andare a zittirli con un rutto tanto supersonico da spettinarli tutti quanti è forte, ma mi contengo. Intanto la mia penna da taschino decide di licenziarsi senza nessun giorno di preavviso, inducendomi a imprecazioni a denti stretti. Per fortuna il mio collega seduto accanto a me ha un utile pennarello da autografi che mi consentirà di scarabocchiare un altro pochino (non vi dico la fatica che ho fatto per decifrare quegli appunti deformi).
C’è un fitto scambio di strumenti sul palco, ma non sempre i risultati sono eccelsi: la Burns non è Jaco Pastorius al basso, così come Rob Low non è John Meyer alla chitarra. Ogni tanto certi esibizionismi potrebbero restare fuori dalla porta. Però quando Clark, Chapman e la Burns si mettono allo xilofono e all’unisono scandiscono il tempo come il ticchettio intrecciato di sveglie di vetro che fluttuano intorno a una nuvola, ne viene fuori momento parecchio psichedelico.
Cohaulia, l’attesa speranzosa di Truth e i vortici lacustri di Steerage & The Lamp conducono il set alla fine, un’ora spaccata. C’è la consueta uscita di scena farlocca, il rientro fintotrionfante coi due extra (non chiamateli bis, ve ne prego) che spengono il fuoco dei Balmorhea. Mi dispiace soltanto non essere stato trafitto allo stomaco dall’immensa disperazione di una Constellations o dai clangori di una Bowsprit, brani che attendevo parecchio. Ma in più punti ho sentito stringere un nodo alla gola ed è stato invero meraviglioso.
* Foto d’archivio
A cura di Marco Giarratana