E’ il mio primo giorno di mal di gola da marzo ad oggi. Oltre alle rogne intestinali, le molestie faringee sono ciò che meno tollero al mondo. Non c’entra un cazzo, ma è bene che il lettore sia al corrente dello stato d’animo del narratore per comprenderne il punto di vista iniziale… No, fanculo, perché anche senza mal di gola e i patimenti esistenziali connessi, i Race Horses, che mi accolgono sul palco laterale dell’Alcatraz in starnazzamento già in corso, mi avrebbero ugualmente indotto a impeti emetici. La solita banderuola tutta look e niente arrosto, la cui latitanza di idee rasenta l’increscioso, traboccante di linee melodiche smidollate, adatta a un easy listening pre-adolescenziale. Pare che in platea, non ancora foltissima, riscuotano un modesto gradimento e per tanta pochezza è un vero successo. C’è poco da dire su questi 4 indie-rockettarini dall’estetica ben progettata: frontman intellettualotto-timidone-trasandato-farlocco col capello leccato sulla fronte, il batterista (tecnicamente, il più dotato) con cespuglio voluminoso alla Mars Volta, l’immancabile bella fringuella dal crine rosso alle tastiere, più elemento scenico che altro. Sul versante musicale, quello fondamentale, non ho proprio nulla da dichiarare: uguali, se non peggiori di mille altre band usa e getta là fuori che tra 2 anni verranno risucchiate dall’oblio. Stanno sul palco solo perché il marketing gli è propizio.
Durante il consueto cambio palco, il sommo capo della baracca cibicidica Emanuele Brunetto al mio fianco agita una mano che fa schiantare per terra il mio bicchiere di plastica con l’ultimo rimasuglio di birra nel fondo, favorendo lo schizzo della preziosa bevanda sui pantaloni di una coppietta davanti a noi intenta ad ascoltare i nostri nerdosi discorsi su “Una volta vidi gli Isis a Roma”, “No, Mark Lanegan live è il carisma incarnato”, “Minchia i Tool dal vivo sono un gruppo della madonna: quando cazzo esce il disco nuovo?”. La coppietta se la prende a ridere dimostrando di essere abbastanza Roccherrolle. Ma, se mi giro intorno ben camaleontizzato come sono con barbona, Camper ai piedi e occhialino vintage, scorgo un pubblico da sfilata di Moschino tra chignon, rossetti rosso sgargiante su visi pallidi, pois e gonne ascellari, ciuffi pettinati con la cura del trasandato ben calibrato, gente che se gli sfiorassi la camicetta di Missoni ti strapperebbe l’anima e la rivenderebbe a una cellula della Yakuza giapponese per auto-risarcirsi. Oh, ai concerti ci si viene per sudare e puzzare, così m’ammazzate il Roccherrolle. Ma, già, questo non è un concerto Roccherrolle, non c’è mica Lemmy Kilmister lassù. No, c’è Natasha Khan, trentatreenne smilza infilata in un vestitino bianco che ne ammanta di grazia le già eleganti movenze.
Una cantante eccelsa, inappuntabile. Non le ho sentito compiere una stonatura, un’incertezza vocale fino al penultimo brano. Solo alla fine ha ceduto con qualche quarto di tono mal controllato. Alterna perfettamente voce di testa a voce di petto, sussurra e amplia le emissioni senza perdere di vista le oscillazioni dei brani, sostenendone il candore e le rarefatte atmosfere. A supportare Bat For Lashes in questo tour c’è una band di quattro elementi, tre uomini e una donna, ma lasciatemi dire che la loro presenza è pressoché superflua. Tra pad e loop, è tutto campionato: le basi di ogni brano, a parte il sostegno ritmico del batterista, i cori, persino le seconde voci sono prese pari pari dal disco. Natasha potrebbe andare a zonzo sola con un Mac e il pianoforte per quei 2 brani necessari per dare un tocco d’autunno al set. Che, come di consueto, spinge sul materiale incluso nel recente “The Haunted Man” nella prima parte, sfoderando perle dei primi due album nel finale.
Interagisce poco col pubblico, lei, e a parte quattro “what a wonderful audience” è uno svolgere il compito per portarlo nel giro di un’ora spaccata al capolinea. La performance non è algida o senza sentimento, Natasha è a suo agio e affronta con trasporto alcuni momenti (Laura, Glass), ma si percepisce che quello è il Suo Mestiere e non è granché soddisfacente quando tu, imbecille scribacchino e ascoltatore in platea lo percepisci.
Insomma, Bat For Lashes dimostra il proprio valore tecnico ma non concede sorprese. Parte con Lilies, passa per Travelling Woman, Oh Yeah, All Your Gold, Horses Of The Sun, finge di abbandonare il palco per poi rientrare e chiudere con The Haunted Man e l’immancabile Daniel, tra ovazioni, applausi, bella, brava, bis. Un concerto normale, nulla di speciale.
Ciò che mi lascia parecchio perplesso è l’assoluta fedeltà al disco. Un pregio, è vero, d’altronde tentare digressioni su quelle tortuose linee vocali è da folli e per i brani, data l’impostazione asciutta, caricarli di ulteriori parti strumentali equivarrebbe a sfregiarli. Ma l’eccessiva precisione mi ha trasmesso una brutta sensazione d’artificiosità. Insomma, se ancora dopo 40 anni ascoltiamo “Made In Japan” e ne tessiamo le lodi non è perché i Deep Purple ce l’abbiano più lungo e grosso degli altri, ma perché lì c’è il sudore, ci sono gli sgarri, c’è l’impatto del live sul pubblico. Non oso immaginare cosa significò quel concerto per chi ansimava e sudava tra la folla. Il pop (e il rock in generale) di oggi è troppo pulito, troppo educato. A volte, poco umano.
SETLIST: Lilies – What’s A Girl To Do? – Glass – Travelling Woman – Oh Yeah – All Your Gold – Horses Of The Sun – Horse And I – Laura – Lumen – Prescilla – Sleep Alone – Pearl’s Dream —encore— The Haunted Man – Daniel
A cura di Marco Giarratana