Ci sono pochissimi dubbi sul fatto che il disco “A Due” di Beatrice Antolini sia stato una delle cose migliori che l’indie italiano ha prodotto in questo 2008. Con Il Cibicida abbiamo sottolineato abbondantemente quanto, nel nostro paese, “mancasse da tempo un esponente al femminile dell’underground alternativo”. Bene, il live che l’Antolini ha proposto in questo bagnato dicembre romano al Circolo Degli Artisti, ne è stata strabiliante controprova. Mentre fuori il Tevere minaccia piene ed esondazioni, dentro Bea sconvolge per il frullato sonoro accattivante della sua musica. Davvero, non è facile descrivere ciò che “dicono” le sue canzoni, forse allora potremmo volare di fantasia, immaginando un party privato dove a partecipare ci sono i Calexico, Frank Zappa, Betty Boop ed i Dresden Dolls. Perché la Antolini mischia alti e bassi, pianoforte, trombe, sapore western, qualcosa del fumo di Broadway di inizio secolo. Mixa ritmi densissimi e ballads da pelle cianotica. E questo bianco e nero è l’essenza di Beatrice: dark lady nell’aspetto, con completo nero, pallore alla Siouxsie e tacco di venti centimetri. E trascinatrice divertita nell’esibizione: picchia la sua tastiera appendendovisi letteralmente, gioca col sintetizzatore Moog, frastaglia mini tamburelli, canta a squarciagola e spettina la sua chioma da Morgana. La band accanto a lei, poi, è eccezionale: Federico Fantuz alla chitarra, Enzo Cimino alla batteria (Mariposa), Francesco Candura al basso (Jennifer Gentle) e le percussioni di Federico Alberghini e la tromba di Massimo Tunin. Un gruppo che esalta i suoni, che li fa ora gioia, ora solitudini, ora schizzate fantasie cerebrali. Nella setlist c’è, naturalmente, un bel gruzzolo di pezzi dal nuovo disco: vedi New Manner, A new room for a quiet life, Pop goes to Saint Peter, Sugarise. Ma anche qualche composizione dal precedente lavoro del 2006 “Big Saloon” come Bread And Puppets, Monster Munch, Coca Cola Shirley Cannonball e, infine, la canzone con la quale la pluristrumentista di Macerata chiude un concerto, forse troppo breve, ma davvero prezioso: Hi! Goodbye!
* Foto d’archivio
A cura di Riccardo Marra